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Articolo pubblicato sull’annuario settoriale Birritalia 2013-14

La definizione/individuazione della vera birra artigianale sembra essere un problema che esiste solo per noi e al limite per gli americani mentre nel resto d’Europa, con rare eccezioni, pare che nessuno se lo sia mai posto né soprattutto abbia intenzione di farlo mentre da noi è scottante materia di infinite discussioni che coinvolge produttori, addetti ai lavori e consumatori, specie in rete, su blog e forum. La qualificazione di birra artigianale incredibilmente non é stata ancora definita con precisione né a livello associativo né legale e quindi può essere vantata, anche se non apposta sulle etichette, da chiunque cerchi di cavalcare l’onda con l’evidente e demagogico intento di creare confusione nel consumatore.

Da vetusto degustatore-scrittore ma soprattutto da grande appassionato, per non dire uno dei padri del movimento artigianale quale vengo unanimemente ritenuto, credevo che, forse con eccesso di anacronistico romanticismo, un artigiano che produce birre per il proprio birrificio o per il proprio brewpub, dovesse dedicare la maggior parte del suo tempo e delle sue energie proprio a fare il suo mestiere, cioè a fare birre. Invece dai “miei” birrai raccolgo incessanti lamentele sulle continue perdite di tempo ed energie dovute ad interminabili file negli uffici amministrativi, nonché ad improvvise visite di controllo, quasi sempre mentre ci si sta concentrando sulle delicate fasi della birrificazione, da parte di solerti funzionari di vari enti ed autorità che, nella maggior parte dei casi, non sanno nemmeno cosa si stia realmente producendo. L’elenco di motivazioni di sanzioni è lunghissimo e a volte grottesco. Solo per fare un esempio, un birrificio triestino è stato multato per aver messo il puntino dopo la “elle” di litro nel listino prezzi! Si parla tanto di aumento drammatico ed esponenziale della disoccupazione giovanile e proprio non si capisce perché non si cerchi di incentivare ed aiutare, invece di ostacolare per mezzo della solita deprecabile burocrazia all’italiana, questi giovani imprenditori-artigiani che in un periodo di crisi profonda che sta attanagliando e soffocando il nostro paese, hanno saputo, in controtendenza, far nascere e dare impulso ad un settore nuovo “che tira”‘ e che crea posti di lavoro, indotto e un’ulteriore eccellenza nel nostro ricco e variegato panorama enogastronomico.

Si parla tanto di incentivare il turismo, elemento fondamentale per la nostra asfittica economia ma lo sanno il ministro e gli enti di promozione che, sull’onda della nostra straripante “Renaissance” sia recentemente nato e stia rapidamente crescendo un esaltante turismo birrario? Gli stranieri appassionati di birre lo sanno eccome! Sempre più spesso, alla classica richiesta “vengo in vacanza in Italia con mia moglie, mentre lei passa ore nei musei, dove posso trovare buone birre artigianali italiane?” se ne sta aggiungendo una nuova cioè “mi prepari un itinerario che mi permetta di godere delle vostre bellezze naturali e artistiche ed al tempo stesso visitare microbirrifici e brewpubs per conoscere i vostri birrai e godere buone birre artigianali italiane?” Ma nelle sfere del potere lo sanno che in Italia abbiamo più di cinquecento produttori artigianali? Temo proprio di no come di certo non sanno che i nostri artigiani stiano imponendo un inedito “Made in Italy” sempre più conosciuto ed apprezzato sia in Italia che all’estero con birre originali, espressione della nostra straordinaria biodiversità, che impiegano ingredienti locali, forniti da altri artigiani operanti nel loro territorio, come cereali, erbe, ortaggi, spezie per non parlare della straripante tendenza di legare il mondo delle birre con quelle dei vini soprattutto con l’utilizzo di mosti, lieviti e il sempre più frequente ricorso alla barrique.

Eppure incredibilmente non si è ancora risolta l’annosa questione della definizione di “birra artigianale” che merceologicamente non esiste e che quindi se apposta sull’etichetta di una birra comporta per il birraio in questione una multa che oltre all’indubbio danno economico rappresenta una beffa difficile da digerire. Eh sì sembra assurdo ma da noi esistono birrai artigianali che fanno per bene cose buone non pastorizzate, ricche di aromi e di sapori che tutti chiamano birre artigianali e che lo sono perché fatte dagli artigiani ma che paradossalmente essi stessi non possono dichiarare e quindi identificare come tali sulle etichette delle loro bottiglie. Questa qualificazione, incredibilmente non é stata ancora definita con precisione né a livello associativo né legale e quindi può essere vantata, anche se non apposta sulle etichette, da chiunque cerchi di cavalcare l’onda con l’evidente e demagogico intento di creare confusione nel consumatore. Questo vuoto legislativo stride ancor di più se si tenga conto del fatto che in realtà abbiamo sia una definizione giuridica-organizzativa generale di impresa artigiana sia delle birre stesse.

La prima sostanzialmente ci dice che l’artigiano è “colui che esercita personalmente, professionalmente e in qualità di titolare l’impresa artigiana, assumendone la piena responsabilità con tutti gli oneri e i rischi attinenti alla sua direzione e gestione e svolgendo in misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo” mentre la seconda fa tragicamente sorridere non tanto nella definizione “tout court” di “prodotto ottenuto dalla fermentazione alcolica con ceppi di saccharomyces carlsbergensis o di saccharomyces cerevisiae di un mosto preparato con malto, anche torrefatto, di orzo o di frumento o di loro miscele ed acqua, amaricato con luppolo o suoi derivati o con entrambi quanto nell’arida classificazione delle birre in base al grado saccarometrico. Copio e incollo dall’art. 2 D.P.R. 30.06.98 n.272: la “birra analcolica” deve avere un grado Plato (saccarometrico) non inferiore a 3 e non superiore a 8 e con titolo alcolometrico volumico non superiore a 1,2%. Per “birra leggera” o “birra light” si intende un prodotto con grado Plato non inferiore a 5 e non superiore a 10,5 e con titolo alcolometrico volumico superiore a 1,2% e non superiore a 3,5%. La denominazione “birra” invece è riservata al prodotto con grado Plato superiore a 10,5 e con titolo alcolometrico volumico superiore a 3,5%; tale prodotto può essere denominato “birra speciale” se il grado di Plato non è inferiore a 12,5 e birra doppio malto se il grado di Plato non è inferiore a 14.5. Infine quando alla birra sono aggiunti frutta, succhi di frutta, aromi, o altri ingredienti alimentari caratterizzanti, la denominazione di vendita è completata con il nome della sostanza caratterizzante”. Mon dieu!

Per far finalmente comparire legalmente il termine “birra artigianale” inquadrandolo in una fattispecie merceologica e ponendo fine ad un assurdo equivoco culturale e, già che ci siamo, per far scomparire termini senza un senso logico per non dire ridicoli come “birra speciale” e “birra doppio malto”, chi dovrebbe farsi portavoce ufficiale presso le cosiddette autorità competenti? Risposta fin troppo facile: ovviamente un’associazione di categoria che raggruppi e rappresenti tutti i birrai artigianali! Stupisce quindi come l’Unionbirrai, che in teoria dovrebbe svolgere il ruolo di punto di riferimento, non si sia mai voluta confrontare su tale spinoso problema né tantomeno collegarsi alla definizione giuridica di impresa artigiana su menzionata, interamente scaricabile da www.ilcommerciale.com/Impresa/aspirante%20imprenditore/Artigiano.htm

Come spesso accade nel nostro folcloristico paese, saranno probabilmente azioni individuali, del singolo o al massimo di pochi, a tentare concretamente un cambiamento. Nel frattempo possiamo lavorare e divulgare, ognuno nel proprio campo di competenza (detesto i tuttologi), per dare almeno una definizione “etico-culturale” che ben sappia chiaramente differenziare e diversificare il prodotto artigianale da quello industriale. Si può senz’altro fare mentre la vedo più dura per quelle birre “non troppo industriali né abbastanza artigianali”:-) apparse sugli scaffali dei supermercati. Condivido in toto il malessere e il malcelato malcontento che serpeggiano tra i nostri birrai che fanno grandi birre artigianali senza che possano scrivere sulle loro etichette quello che abbiano fatto ma solo termini generici che portino ad accomunare le loro creazioni, paragonabili a mobili fatto a mano da artisti dello scalpello e della pialla ad anonime birre industriali paragonabili a mobili preconfezionati da montare a casa. Ora direi sia giunto il momento di dare voce ai protagonisti e ho quindi voluto interpellare al riguardo uno dei nostri più valenti birrai, il sardo Nicola Perra del Birrificio Barley, per la sua lotta in prima linea e l’indubbia capacità di analisi e raccogliere le emblematiche testimonianze di due birrai sanzionati per avere scritto “birra artigianale” sulle loro etichette, l’abruzzese Jurij Ferri del Birrificio Almond 22 e il piemontese Teo Musso di Birra Baladin, il più famoso, mediatico e carismatico produttore italiano.

IL PARERE DI NICOLA PERRA DEL BIRRIFICIO BARLEY
Ho chiesto cosa ne pensassero il caro amico Nicola Perra e il suo affiatatissimo socio nonché cognato e commercialista Isidoro Mascia che a Maracalagonis nel cagliaritano, hanno saputo imporre una qualità di alto livello e una costanza che hanno garantito una solida reputazione in Italia e all’estero. Ecco qui integralmente e testualmente cosa mi ha detto Nicola nelle vesti di portavoce. “Il quesito che ci poni è qualcosa col quale ci confrontiamo praticamente tutti i giorni e, nonostante io veda molto chiaro come debba essere formulata la definizione di “birra artigianale”, mi rendo conto che in Italia di questa nomenclatura è stata fatta “carne di porco” non solo da parte dell’industria, ma anche (soprattutto) dai sedicenti produttori artigianali.

Ma andiamo per gradi. Per come la vedo io tale definizione deve coinvolgere prima di tutto gli “artigiani” appunto che, così come recita la definizione legale devono essere iscritti nell’apposito “albo delle imprese artigiane”, che quindi lavoreranno in un'”impresa artigiana”, registrata a sua volta nella sezione speciale del suddetto albo della Camera di Commercio. Il prodotto “birra” che uscirà da tale impresa sarà una “birra artigianale”, in quanto fatta “ufficialmente” da un’impresa artigiana e quindi da uno o più artigiani. Ma non basta: bisogna mettere dei confini anche sul sistema produttivo, perché la birra si possa “fregiare” dell’aggettivo artigianale. Si è dibattuto a lungo sull’altezza alla quale posizionare l’asticella che definisca il limite produttivo per un birrificio artigianale e molti sarebbero d’accordo nel fissarla sul limite massimo di 10mila ettolitri/anno.

Altro paletto da mettere, a mio avviso, senza se e senza ma, è evidentemente la NON PASTORIZZAZIONE. Sul discorso della filtrazione non entro neppure, in quanto è un metodo che adottano molti birrifici artigianali per chiarificare la birra, in modo più o meno spinto. I modi per chiarificare la birra sono davvero tanti, come ben sappiamo, ma pochissimi adottano il sistema della chiarificazione solo “a freddo”, giacché ciò richiede un tempo di stazionamento della birra nei serbatoi di maturazione davvero elevato…come facciamo noi. Non vedo male la centrifuga, in quanto sistema basato su un principio fisico (la centrifugazione della birra, appunto): dalla velocità alla quale far andare la centrifuga si decide quanto “ripulire” la birra.

Ci vogliono però quantitativi di birra abbastanza elevati -rispetto alla media delle dimensioni d’impianto della stragrande maggioranza dei produttori italiani- che giustifichino l’acquisto di una macchina così costosa. Però un altro paletto a questo punto lo metterei, ossia il DIVIETO ASSOLUTO DI UTILIZZARE ADDITIVI CHIMICI (chiarificanti, enzimi, antiossidanti, stabilizzanti della schiuma etc etc…), altrimenti davvero saremmo molto vicini alla produzione di stampo industriale. Mi rendo conto che tra noi birrai italiani ci sono visioni diverse sia sulla concezione produttiva della birra artigianale, che nella conduzione commerciale dell’impresa artigiana. Poi c’è il discorso delle “beer firm”, ossia di quelle birre fatte da altri produttori per un marchio terzo, il cui titolare non possiede un impianto di produzione. In questo caso, se il prodotto viene fatto da un’impresa artigiana, definita come sopra, allora ciò che verrà fuori, prodotto per terzi, sarà sempre una birra artigianale, ma il marchio della “beer firm” non potrà definirsi “produttore”, né tantomeno “birrificio artigianale”, in quanto sarà un semplice rivenditore/distributore di quella “beer firm”.

Poi capita il caso, “la mia birra me la faccio fare in quell’impianto, su mia ricetta…ma solo per un periodo limitato”, quindi un noleggio a termine dell’impianto durante una fase transitoria della propria impresa, come spostamento degli impianti ed apertura in una nuova location e magari ampliamento dell’impianto stesso. Insomma, una fase transitoria per non perdere mercato e incassi. Ben altra cosa è cavalcare l’onda di successo (attuale…) della birra artigianale italiana e infilarcisi, attraverso produzioni assegnate ad altri, con proprio marchio, e farsi passare per “produttori di birre artigianali”. La trovo una cosa scorretta, non illecita, ma decisamente scorretta, specie quando gareggiano a concorsi nei quali, se prendono un premio, non si sa onestamente a chi lo si dovrebbe assegnare (se al produttore effettivo o a chi detiene il marchio della beer firm premiata). E’ una cosa scorretta anche nei confronti di chi ha un’impresa artigiana che si accolla tutti i costi e i rischi d’impresa, che tale attività produttiva comporta, dato che un imprenditore artigiano (quale sono io e il mio socio ad es.) produce e vende, mandando avanti prima di tutto un’impresa, poi “birraria” e poi “artigianale”. Credo che con questa spiegazione il nostro pensiero sia molto chiaro :-)

IL PARERE DI JURIJ FERRI DEL BIRRIFICIO ALMOND ‘22
Ora passiamo ad un altro caro amico mio, Jurij Ferri, mamma svedese e padre abruzzese che nel 2003 da chef si è trasformato in apprezzato birraio nel suo Almond 22 di Spoltore vicino a Pescara. L’ho intervistato ponendogli tre domande.

K. Jurij qual’è la tua opinione sulla lacunosa definizione di birra artigianale nel nostro paese?

J. Credo sia un grande danno per tutto il comparto, chiunque può sfruttare a suo piacimento il nome “birra artigianale”. Questo oltretutto crea confusione nel consumatore al quale se chiedi cosa è una birra artigianale, se ti va bene, ti dice che è una birra cruda e neanche sa cosa sia una birra cruda. Poi che triste definizione ” birra cruda”, termine risalente a più di 30 anni fa quando fummo invasi dalle weiss teutoniche. Nessuno può realmente in questo momento dare una vera definizione di questo prodotto e l’ambiguità tra l’altro gioca anche a favore di alcuni produttori a cui questa poca chiarezza fa comodo.

K. So che hai dovuto pagare una multa per aver scritto birra artigianale sulle tue etichette. Conoscendo la tua proverbiale onestà e correttezza, raccontaci cosa è successo.

J. Nulla di particolare, mi sono fatto fregare dal mio essere logico. Ho pensato che essendo un artigiano e avendo una licenza come opificio per la produzione di birra artigianale, fosse scontato poter definire “artigianale” il mio prodotto. Grosso errore, visto che a livello merceologico la birra artigianale non è mai stata registrata. Quindi non esiste! Il “cogito ergo sum” non è applicabile al mio lavoro. Ho un birrificio artigianale, sono un artigiano ma non posso definire artigianale la ma birra e allora cosa sono e cosa produco? Spiegatemelo voi!!! Diretta conseguenza è stata una multa per aver definito il mio “prodotto” birra artigianale.

K. Hai dei suggerimenti costruttivi da girare a chi di competenza? Sempre ammesso che si sappia chi sia di competenza:-)

J . Vorrei che le associazioni di categoria già esistenti si concentrassero su questo problema. Se sono associazioni di categoria devono definire il prodotto che rappresentano. Dovrebbero capire che se la birra artigianale non esiste, non esistono neanche loro. Se fossero più rappresentativi ed efficienti credo che saremo molti più ad iscriverci. Tristemente penso che ci sia anche molta mancanza di interesse e competenza da parte di molti colleghi che si improvvisano. Chiunque pensa che sia l’affare del momento, la tendenza da seguire, ritenere che un birrificio è sia un business sicuro. Ebbene io non mi sento una moda, né un business, la mia come quella di molti colleghi competenti, è una scelta di vita. Come tale deve essere rispettata. Chi fa birra cattiva, chi propina birre piene di difetti al pubblico, non merita di usare il nome di “birra artigianale”. In definitiva la colpa è nostra!!!! La colpa è di una casta di birrai che non vuole ancora capire la necessità di una unica, forte, seria e credibile associazione di categoria. In Italia troppe “prime donne” e troppa mancanza di professionalità nonché scarsa capacità organizzativa……. siamo italiani neh?!?

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