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A cura di: GIORGIO TEMPORELLI – Laureato in Fisica – Consulente tecnico e responsabile ricerca e sviluppo per la Società Italiana Trattamento Acque – Fa parte del Comitato Scientifico del periodico L’AMBIENTE – Docente del corso “Acque trattate e naturali” presso l’I.P.S.I.A. Gaslini di Genova – Pubblicista e relatore in materia di acque e ambiente con numerosi libri a suo carico.
www.giorgiotemporelli.it

Fonte: Annuario Acque Minerali Italia 2005-06 ©Beverfood Srl – Milano

SOMMARIO: prime considerazioni sulla qualità delle acque – il trionfo dell’acqua: i grandi acquedotti romani – i centri del benessere: i balnea e le thermae

Rif. Temporale: 10/2006

Prime considerazioni sulla qualità delle acque

Uno dei problemi che maggiormente afflisse la specie umana nell’antichità fu il controllo delle acque. Le civiltà del passato non avendo le capacità necessarie per trasportare a distanza le acque furono costrette ad insediarsi nelle loro più immediate vicinanze, in modo da riuscire a sfruttarle adeguatamente. Tuttavia se le zone aride non si predisponevano ad essere abitate, anche quelle in prossimità dei corsi d’acqua presentavano alcuni inconvenienti.

Affrontare le piene dei fiumi e le problematiche conseguenti alle inondazioni era una scelta imposta dalle circostanze, alle quali ogni civiltà cercò di far fronte nel migliore dei modi. Fu così che, nel corso dei secoli, l’uomo cercò di modificare i corpi idrici naturali per difendersi dagli allagamenti, bonificare territori, produrre forza motrice, irrigare i campi oltre che, ovviamente, assolvere allo scopo quotidiano primario, ovvero dissetarsi.

Per arrivare alle prime vere tecniche acquedottistiche e ai primi tentativi di differenziazione e classificazione delle varie acque bisogna arrivare all’epoca romana, periodo storico a cui risalgono le nostre principali conoscenze in materia. In quell’epoca infatti, per la prima volta nella storia dell’uomo, l’acqua venne vista come un elemento di fondamentale importanza per il livello di benessere della società e per questo venne valutata non solo dal punto di vista quantitativo ma anche e soprattutto da quello qualitativo.

Pur non avendo conoscenze scientifiche in materia di microbiologia e chimica i Romani prestarono una particolare attenzione alla qualità dell’acqua utilizzata per uso civile, la quale veniva scelta in contemplando preventivamente molti fattori come la posizione delle sue sorgenti, il sapore e la temperatura.

Non potendo usufruire criteri analitici tipo quelli che sono oggi a nostra disposizione, la bontà di un’acqua veniva valutata effettuando una serie di considerazioni, tra le quali le condizioni generali di salute della popolazione che viveva in prossimità delle sorgenti. Nel caso si trattasse di una nuova captazione l’acqua non veniva utilizzata subito; alcuni campioni venivano prelevati e conservati in contenitori di bronzo, quindi esaminati in modo da determinarne alcune importanti caratteristiche come il cambio nel tempo dei parametri organolettici, il grado di corrosività e la presenza di materiale in sospensione.

Uno dei primi studi sugli effetti delle acque minerali assunte come bibita venne effettuato da Plinio il Vecchio (I secolo d.C.) e riportato nel XXXI libro della sua opera in 37 volumi: la Historia Naturalis. Plinio per primo cercò di suddividere le varie acque naturali classificandole in base alla differente temperatura e per alcune caratteristiche di composizione, in particolare identifica le solfuree, le bituminose, le acidule, le alluminose, le saline e le ferrugginose, nota inoltre che alcune di queste diventano rossastre al contatto con l’aria, specialmente se avvicinate ad una fonte di calore, mentre altre sono in grado di lasciare nel contenitore un deposito incrostante.

Con particolare interesse affrontò la questione salutare, associando ad ogni tipologia di acqua una specifica azione terapeutica[1] mentre, qualora non fosse disponibile acqua di buona qualità, è sempre Plinio a sottolineare che, prima di berla, essa deve essere bollita sino ad ottenerne una notevole riduzione del volume, quindi fatta raffreddare in vasi di vetro. Grazie a questa procedura, ideata e già sperimentata da Nerone, era possibile ottenere un’acqua di qualità superiore rispetto a quella fredda presa tal quale.Si teneva conto del fattore qualitativo anche in funzione della destinazione finale dell’acqua. Mentre le acque sorgive di migliore qualità erano destinate agli acquedotti, alle fontane pubbliche ed alle ville imperiali, quelle di qualità ritenuta inferiore, ed in particolare quelle derivate da corpo idrico superficiale, venivano impiegate per usi artigianali ed all’alimentazione delle naumachie

Il trionfo dell’acqua: i grandi acquedotti romani

Nei periodi antecedenti il III secolo a.C. i Romani utilizzarono prevalentemente le acque attinte dal Tevere per soddisfare i fabbisogni quotidiani. Dal 312 a .C. in avanti ebbe invece inizio la storia dei grandi acquedotti dei quali, ancora oggi, esistono numerose testimonianze architettoniche. Il crescente sviluppo demografico fece aumentare rapidamente e notevolmente la domanda di acqua potabile e si fece così ben presto sentire l’esigenza di costruire opere adeguate a tal scopo. Attraverso gli acquedotti fu, per la prima volta nella storia dell’uomo, possibile trasportare grandi quantità di acque di ottima qualità, captate da sorgenti lontane anche decine di chilometri dai centri abitati verso i quali erano indirizzate.

La realizzazione ed il funzionamento di un acquedotto romano prevedeva una serie di steps. A partire dalla progettazione del manufatto per arrivare all’erogazione dell’acqua venivano presi in considerazione alcuni parametri, dalla cui corretta valutazione discendeva la bontà dell’opera. Particolare importanza veniva data al percorso del futuro acquedotto, ogni suo tratto veniva sottoposto ad una serie di indagini topografiche per le quali gli architetti romani disponevano di un certo numero di strumenti come il chorobates, (usato per la misura della pendenza dei condotti venne dettagliatamente descritto da Vitruvio[3] ), la libra aquaria, (livella ad acqua per la rapida misura della pendenza), la dioptra, (una sorta di livella molto sofisticata la quale consentiva di apprezzare le angolazioni sia rispetto alla direzione che all’inclinazione) e la groma (strumento inventato ed utilizzato al tempo di romani per tracciare linee rette e perpendicolari, particolarmente usato per la realizzazione dei tracciati urbani).

Non meno importante era la buona costruzione dello specus , ovvero il condotto, che veniva generalmente realizzato in sotterranea sia per la maggiore facilità esecutiva che per consentire una migliore protezione dalle captazioni abusive. Le prime condutture vennero scavate direttamente nel tufo mentre in seguito, sia che corressero in superficie oppure in sotterranea, diventò prassi comune coprirle con lastre di pietra in modo da proteggere l’acqua dall’ambiente esterno, ovvero dalla luce solare ma soprattutto da foglie, terriccio, animali, ecc. Anche le pareti del condotto venivano protette ed impermeabilizzate grazie ad un rivestimento in cocciopesto, una sorta di malta mescolata a frammenti di mattoni sbriciolati. A seconda delle caratteristiche geografiche, gli eventuali avvallamenti che si presentavano lungo il percorso venivano superati seguendo tecniche differenti.

Far seguire alla condotta il fianco della montagna assicurava una conduzione lineare del corpo idrico, a discapito tuttavia della lunghezza del percorso, mentre in alcuni casi si optava per i ponti – acquedotto, talvolta costituiti da più ordini di archi sovrapposti. Era nota anche la tecnica del sifone, soluzione che presentava notevoli limitazioni a causa delle tecnologie e materiali dell’epoca tanto da limitarne l’utilizzo. Essendo le tubature costruite in piombo esse non potevano resistere, soprattutto nei punti di giunzione, alle pressioni generate dall’acqua lungo la discesa. Per questo motivo il dislivello veniva frequentemente ridotto costruendo un piccolo viadotto di supporto nella zona più a valle. L’utilizzo della tecnica del sifone comportava notevoli sforzi realizzativi, nonostante ciò le condutture presentavano spesso cedimenti con conseguenti

Avvicinandosi alle città, ovvero in prossimità di terreni pianeggianti, per consentire il regolare deflusso idrico a pendenza costante e nello stesso tempo mantenere una quota sufficientemente sopraelevata, il condotto veniva posizionato su arcuazioni: più l’acqua viaggiava in alto e tanto piu’ elevato era il numero di quartieri che poteva raggiungere.

L’acqua, durante il lungo percorso che la separava dal punto di captazione dall’arrivo in città, era sottoposta a diversi controlli e rudimentali tecniche di affinamento. Prima di essere incanalata, ma anche lungo il tragitto, l’acqua attraversava le cosiddette piscine limarie , grosse vasche di decantazione che consentivano all’acqua di rallentare notevolmente e permettere così il deposito del materiale in sospensione.

In prossimità di un’area urbana il condotto principale si immetteva in un castellum aquae , ovvero una costruzione dotata di vasche munite di calices, speciali “prese” in bronzo calibrate dalle quali avveniva la ripartizione delle acque alle utenze. Dal castello principale partivano anche rami secondari che andavano ad alimentare altri castelli piu’ piccoli, oppure direttamente un centro termale, oppure delle fontane. Questi centri di smistamento e distribuzione d’acqua venivano in genere posti sotto sorveglianza in quanto, essendo potenzialmente soggetti a manomissione per captazioni abusive, considerati punti particolarmente critici.

In prossimità della monumentale Porta Maggiore, nel centro della capitale, convergevano i condotti di molti grandi acquedotti e da lì partivano i vari rami della distribuzione. Nella parte superiore della Porta sono ancora oggi ben visibili i due “monumentali” spechi sovrapposti degli acquedotti Claudio e Novus, che poggiano su una terza fascia ornamentale. A pochi metri si innestano, in direzione perpendicolare, anche gli acquedotti Marcio, Tepula e Giulia.

La complessa rete di condotte idriche che attraversava l’antica Roma, ma anche e soprattutto le città della penisola Italica e dell’intero Impero Romano, necessitava una produzione su larga scala di tubazioni di grosso diametro, ma anche di tubi di diametro inferiore i quali venivano invece prodotti direttamente dagli artigiani, così come la raccorderia (curve, manicotti, tappi, derivazioni, ecc) utilizzata per le esigenze dei piccoli impianti. I materiali metallici usati erano il piombo ed il bronzo. Dal piombo fuso si creavano lastre le quali venivano piegate e saldate longitudinalmente per creare tubi, con diametri e lunghezze normalizzate. Per pressioni di lavoro piu’ elevate si optava per il bronzo, così come per la realizzazione delle valvole.

A partire dal 312 a .C. sino al 226 d.C. vennero costruiti, nella sola città di Roma, 11 imponenti impianti i quali assicuravano una quantità ineguagliata di acqua; solamente oggi, grazie alla moderna tecnologia, si è riusciti a fornire la capitale di una potenzialità idrica pro capite confrontabile con quella dell’antica civiltà.

Nell’arco di circa mezzo millennio vennero realizzati i seguenti acquedotti: Appio (312 a .C.), Aniene Vecchio (272-269 a .C.), Marcio (144-140 a .C.), Tepula (126-124 a .C.), Giulio (33 a .C.), Vergine (19 a .C.), Alsientino (2 aC ), Claudio (38-52 d.), Aniene Nuovo (38-52 dC), Traiano (109 dC), Alessandrino (226 dC) .

I Romani esportarono le loro opere di ingegneria edilizia ed idraulica in ogni punto dell’impero. La realizzazione delle strade carrabili permetteva il rapido spostamento di uomini e mezzi, mentre il rifornimento idrico consentiva l’urbanizzazione. In Italia realizzarono le loro opere acquedottistiche dalle regioni meridionali, come la Campania e la Sicilia , a quelle più a nord, come il Veneto e la Valle d’Aosta. Ogni impianto veniva costruito per soddisfare le esigenze specifiche di quella zona, per questo motivo vennero progettate e realizzate opere molto differenti tra di loro, sia per dimensioni che complessità esecutiva.

Oggi i reperti di tali manufatti ci appaiono con uno stato di conservazione assai diverso; alcuni sono definitivamente scomparsi, altri appaiono in condizioni precarie mentre altri ancora risultano in uno stato relativamente buono e sono visitabili.

Ben note sono le imponenti arcuazioni visibili nella periferia romana, soprattutto in località Capannelle nel parco degli acquedotti, dove per alcuni chilometri è possibile seguire i resti degli antichi acquedotti Claudio, Novus, Marcio, Julia, Tepula risalenti all’epoca romana, ma anche dell’acquedotto Felice risalente all’epoca medioevale.

Forse meno famose delle precedenti si presentano, sparse sull’intero territorio nazionale, molte altre realtà, alcune delle quali in ottimo stato di conservazione e caratterizzate da un altissimo interesse storico, come il ponte acquedotto (a campata unica che supera un dislivello di oltre 50 metri ) situato a pochi chilometri da Cogne, nella località di Pondel in provincia di Aosta.

Un’altra particolarissima realtà è rappresentata dall’acquedotto Formina di Narni, in provincia di Terni. Documenti di archivio evidenziano una serie di interventi di restauro effettuati in epoca medioevale e nei periodi successivi tuttavia la configurazione originaria dell’acquedotto, che è stato utilizzato ininterrottamente per sopperire al fabbisogno idrico della città, risale all’epoca romana. Lungo circa 13 km si snoda, con pendenza media pari al 6‰, lungo le pendici delle colline, attraversando montagne e superando alcuni corsi d’acqua su arcuazioni, per portare le acque sorgive dal punto di captazione, presso le pendici orientali del Monte Bandita (321 m .s.l.m.), sino all’arrivo a Porta Terzana (245 m .s.l.m.).

Un tratto sotterraneo del condotto, lungo circa 700 metri , si trova in un buon stato di conservazione e può oggi essere visitato[4] ; si tratta dell’unico acquedotto romano in Italia aperto al pubblico. E’ anche importante ricordare che circa un quinto dell’approvvigionamento idrico della città di Bologna è attualmente fornito da un tratto di acquedotto romano il quale, grazie ai numerosi interventi di restauro effettuati nel corso dei secoli, è attivo da oltre 2000 anni.. Il condotto, che ha una sezione libera di 1,9 x 0,6 metri , funziona a gravità ed ha una pendenza pressoché costante e pari a 1‰

Anche fuori Dall’Italia si trovano oggi ben conservate imponenti strutture come ad esempio l’acquedotto di Nimes (Francia), di cui particolarmente interessante è il Pont du Gard lungo 242 metri , oppure l’acquedotto di Segovia (Spagna) che comprende un imponente ponte con 128 arcate a due ordini per una lunghezza di 827 m ed un’altezza max. di 28,5 m . Nel 1985 questo manufatto è stato dichiarato “Patrimonio dell’umanità”.

I centri del benessere: i balnea e le thermae

Gli acquedotti non servivano solamente a soddisfare il fabbisogno di acqua da bere, moltissime fontane monumentali, pubbliche e private, nonché il crescente numero di bagni e di centri termali richiedeva di essere alimentato con notevoli volumi d’acqua. Tale processo ebbe il massimo sviluppo in età imperiale avanzata, periodo in cui la disponibilità di acqua fu grande e lo sviluppo architettonico tale da consentire di costruire manufatti ad elevato valore artistico, in grado di svolgere sia il compito essenziale di erogare le acque pubbliche ma anche quello decorativo.

Frazioni consistenti dei flussi idrici vennero quindi indirizzati per alimentare i bagni e le terme. I primi stabilimenti risalgono alla fine dl III secolo a.C., si trattava di impianti piuttosto modesti che in breve tempo divennero sempre più attrezzati ed accoglienti, in grado di soddisfare la crescente richiesta di coloro che gradivano usufruire di un bagno caldo ad una modica spesa, non essendo la maggior parte delle case private collegate all’acqua diretta.

I Romani ebbero la capacità di rendere popolare l’uso delle acque, valorizzandone al meglio quegli aspetti igienici e salutari che erano peraltro già noti alle popolazioni antiche. Gli stessi termini “balneum ” (bagno) e “thermae ” (caldo) sono di origine greca, ma è in epoca romana che la frequentazione dei bagni pubblici e dei grandi centri termali ha avuto il massimo sviluppo, sino a diventare un appuntamento quotidiano per la maggior parte della popolazione. I bagni furono aperti a tutti. Per permetterne la frequentazione anche ai ceti meno abbienti vennero stabilite cifre d’ingresso irrisorie inoltre, a partire dal 31 a .C. l’accesso fu consentito anche alle donne anche se, in una prima fase, in orari diversi da quelli degli uomini.

Durante l’Impero fecero la loro comparsa i monumentali edifici termali, in grado di ospitare contemporaneamente oltre 3000 persone, i quali vennero provvisti di una serie di servizi collaterali come biblioteche, sale riunioni, palestre, terrazze adibite a bagni di sole e tutto ciò che potesse servire a rendere quei luoghi dei veri e propri centri del benessere, molto simili per impostazione a quelli in uso oggi. L’approvvigionamento idrico degli impianti veniva assicurato direttamente dagli acquedotti, appositamente costruiti (come nel caso dell’Acqua Vergine) oppure derivati da impianti nati originariamente per usi idropotabili. Il flusso d’acqua non alimentava direttamente l’impianto, esso veniva preventivamente raccolto in grandi vasche adiacenti al centro termale le quali, avendo generalmente un volume considerevole,[5] permettevano sia l’accumulo che la decantazione.

Particolare attenzione fu data al riscaldamento delle acque e dei locali. Le acque di alimentazione non erano naturalmente calde, inoltre alcuni ambienti richiedevano di essere mantenuti ad una temperatura più elevata di quella ambiente. Tutto ciò comportava un enorme dispendio di energia termica, la quale veniva prodotta da impianti di riscaldamento gestiti da personale preposto, i cosiddetti fornacari . La combustione della legna generava un calore in grado di riscaldare l’aria circostante, la quale veniva fatta ricircolare sotto i pavimenti e tra le pareti degli ambienti grazie ad una serie di intercapedini che permettevano di raggiungere e mantenere per lungo tempo temperature anche superiori ai 30°C .

Il riscaldamento dell’acqua avveniva attraverso più caldaie, generalmente costituite in bronzo e piombo, alimentate anch’esse da massicce quantità di legna; si è stimato che per le Terme di Caracalla venisse bruciata oltre una tonnellata di legna ogni ora! In vasca la temperatura veniva mantenuta grazie all’ausilio delle testudo alvei , un recipiente di bronzo a forma di testuggine che, riscaldato direttamente dal forno, veniva appoggiato sul fondo della vasca con la parte convessa in alto in modo da diffondere il calore in maniera continua ed uniforme. E’ interessante pensare a come i Romani riuscirono a mantenere un adeguato livello igienico nelle vasche senza l’ausilio dei disinfettanti chimiicioggi disponibili. Ciò fu reso con ogni probabilità possibile grazie agli enormi volumi d’acqua messi a disposizione, i quali venivano sfruttati per rinnovare con continuità l’acqua delle vasche ed impedire così stagnazioni e proliferazioni microbiche.

Nelle grandi terme erano sempre presenti il calidarium , il tepidarium ed il frigidarium , ambienti che si differenziavano essenzialmente per la temperatura a cui venivano mantenuti. Il calidarium era la zona più calda, quella in cui era presente la vasca con acqua riscaldata adibita a bagno caldo ad immersione. Per favorirne il riscaldamento naturale dovuto al sole, questo locale venne dapprima esposto con orientazione verso sud, quindi in direzione sud-ovest per sfruttare al meglio l’effetto dell’irraggiamento pomeridiano. Il tepidarium era una zona debolmente riscaldata, talvolta adibita a spogliatoio, che serviva anche come collegamento e graduale passaggio dalla zona piu’ fredda ai locali riscaldati. Il frigidarium si identificava con l’aula basilicale stessa nella quale erano presenti numerose vasche di acqua fredda, mentre adiacente si trovava la grande vasca natatoria all’aperto chiamata natatio . Ogni operazione veniva effettuata il più razionalmente possibile; le acque di scarico per esempio, prima di riversarsi nelle fognature e quindi nel Tevere, venivano adibite ad usi tecnologici come il lavaggio delle latrine e l’azionamento dei mulini, mentre l’enorme quantità di cenere prodotta veniva trasportata presso le lavanderie ed utilizzata come sapone.

Verso la metà del IV d.C. nei “Cataloghi” dei monumenti di Roma si menzionavano quasi mille stabilimenti balneari ed undici grandi Terme Imperiali, centri fatti costruire direttamente dagli imperatori e dai quali presero il nome. In oltre tre secoli vennero edificate le terme di: Agrippa (25-19 a .C.), Nerone (62 d.C.), Tito (80 d.C.), Traiano (109 d.C.), Surane (109 d.C.), Caracalla (212-217 d.C.), Deciane (250 d.C.), Saveriane (dall’epoca di Domiziano sino a Massenzio), Diocleziano (298-305 d.C.), Eleniane (inizio del III secolo d.C.), Costantino (315 d.C.)

Gli elevatissimi livelli organizzativi e tecnologici raggiunti dalla società romana in merito all’uso dell’acqua ebbero il loro definitivo tramonto nel 537 d.C., a seguito dell’assedio di Roma da parte dei Goti e della conseguente fine dell’Impero Romano. Gli acquedotti, le terme, le fontane e le vie di scolo andarono ben presto in rovina; i consistenti flussi d’acqua che per molto tempo attraversarono con continuità le città vennero a mancare determinando, per i secoli a venire, un notevole abbassamento delle condizioni igieniche urbane e favorendo il proliferare delle malattie.

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