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“Chi beve solo acqua ha un segreto da nascondere” disse una volta Charles Baudelaire alludendo a possibili effetti collaterali dell’alcol… ma quelli erano altri tempi. Oggi, e in proporzione crescente, bere low e no alcol è una scelta consapevole e pienamente sostenibile nonché, grazie a un’innovazione di prodotto in continua evoluzione, anche una scelta di gusto.

Le lager leggere conquistano ogni giorno nuovi appassionati, anche tra i fruitori abituali di birre classiche: i numeri di una recente indagine BVA Doxa rivelano come ormai il 79% dei consumatori conosca le birre low/no alcol e il 67% le abbia assaggiate; ancora più sorprendente per gli scettici è il dato relativo al gradimento, con un aggregato mi piace/mi piace molto che si attesta al 48%. Le birre light sono percepite più salutari, più digeribili, meno caloriche al punto che anche i beer lover dichiarano di preferire le birre low/no alcol per il 35% delle occasioni di consumo.

È un trend che non sorprende, considerando i molteplici benefici che le birre low e no alcol offrono: la possibilità di godere del sapore unico della birra senza gli effetti dell’alcol è naturalmente un fattore decisivo per molti fruitori, tanto più all’interno di un quadro soprattutto continentale dove quella contro l’alcol assume talora i tratti di una crociata. La battaglia promossa dall’Irlanda sul labeling; la discesa in campo degli accademici francesi contro il Ministero della Sanità, accusato di non fare abbastanza per sensibilizzare le popolazioni sui rischi legati all’alcol e non promuovere il dé fide janvier (“il gennaio senza bere”); la presa di posizione del Consiglio Consultivo finlandese per la Nutrizione, dove si invita ad astenersi completamente (“non esiste un livello sicuro per l’uso di alcol”) dal consumo; la tensione a sempre maggiori restrizioni in discussione a livello parlamentare in Spagna (con un approccio punitivo verso l’industria simile a quello adottato per il tabacco) o in Germania

 

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Sono esempi e si potrebbe continuare a elencarne per pagine e pagine; la campagna “Redifine Alcohol” promossa dall’ufficio regionale europeo dell’OMS con l’intento dichiarato di “colmare le lacune informative e contrastare la disinformazione diffusa da media e industria” elenca con scarsa specificità oltre duecento malattie e lesioni che possono sorgere dal consumo di alcol. “Quando si tratta di alcol, le scelte individuali sono importanti, ma non sufficienti” si legge nelle conclusioni “abbiamo bisogno di un ambiente di supporto, plasmato da forti decisori politici, normative solide e azioni collettive della comunità”. Un approccio, dunque, più ideologico che scientifico, lo stesso che ci si attende per la prossima revisione del BECA europeo, o i lavori in settembre dell’High Level Meeting 4, a margine dell’Assemblea Generale dell’ONU dove la posizione dell’OMS si annuncia non molto di diverso da un generico j’accuse.

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Focalizzato sul consumo di alcol piuttosto che sul suo abuso, pur non avendo valore vincolante per gli Stati membri potrebbe risultare quasi una chiamata alle armi per governi, ONG, gruppi di advocacy; così come, di fatto, sembra suggerire linee guida per le politiche sanitarie prossime venture, raccomandando divieti di commercializzazione fiscale e restrizioni di disponibilità, e scaricando sull’industria qualcosa di molto simile a un onere della prova.

 

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A livello nazionale, l’introduzione del nuovo Codice della Strada con relative restrizioni delle sanzioni e il Decreto Ministeriale 672816 sui vini dealcolati paiono muoversi sotto lo stesso cielo tempestoso: eppure, qualcosa non torna. È come se qualcuno avesse spostato il focus del legislatore su un piano pregiudiziale e decontestualizzato più che di realistico buon senso: l’Italia è il 37° Paese europeo (su 46) per consumo pro capite di alcol – con meno di 7 litri contro i 10 della Francia o gli 11 della Germania – e la tendenza già da tempo si sta autonomamente indirizzando in ulteriore discesa, in linea con le scelte di benessere e di sostenibilità di un fruitore sempre più consapevole, e con una cultura di consumo in costante upgrade negli ultimi trent’anni.

Se già di suo la birra è la più moderata tra le bevande alcoliche, preziosa per le sue radici nel territorio e nella tradizione, alle eccellenze brassicole di stampo classico si sono negli ultimi anni affiancate birre low e no alcol dai profili organolettici di sempre maggiore qualità, con una bevibilità e una sostenibilità tali da rafforzare la già ottima reputazione del settore sui mercati internazionali e da schiudere opportunità competitive rispetto ai produttori di altri paesi, entro un comparto – quello birrario – che è già tra i fiori all’occhiello dell’agroalimentare nostrano, traino del PIL nazionale ed eccellenza del Made in Italy.

 

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Le campagne di sensibilizzazione di AssoBirra e l’impegno dei produttori, inoltre, hanno contribuito a rendere le birre analcoliche scelte pienamente credibili, naturali per ingredienti e processo produttivo. Manifestazione di uno stile di vita, le low/no alcol sono oggi espressione di un movimento creativo, appassionato e in continua innovazione; di una filiera trasparente e sostenibile; di un’evoluzione del gusto e delle abitudini di consumo. Tutti buoni motivi per cui il dibattito no alcol si configuri realmente come un confronto, piuttosto che come una cieca enunciazione, dall’alto, di norme identiche per contesti affatto diversi.

Fonte: www.assobirra.it/annual-report-assobirra

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