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Cocktail take-away per resistere alla pandemia: soluzione o palliativo?


L’emergenza da COVID-19, e la conseguente chiusura totale in Italia e non solo, ha colpito violentemente l’industria dell’ospitalità, sotto i più vari punti di vista, a maggior ragione quella legata al bere. E sebbene si stiano moltiplicando le misure per supportare i lavoratori che sono stati costretti a perdere il lavoro o vederselo ridimensionare (si vedano i vari fondi di soccorso che stanno nascendo soprattutto in USA), ancora non si trova risposta all’interrogativo più importante per ogni proprietario di attività: il mio locale sopravviverà?

Della situazione italiana si legge ovunque, e permane un alone di stallo. Rimanendo dall’altra parte dell’Oceano, una dozzina di Stati americani hanno stabilito la possibilità per bar e ristoranti di servire alcool con sistemi di delivery o take-away: tra gli ultimi ad aggiungersi alla carovana, California, Colorado, New York e Texas. La risposta degli operatori del settore è stata esplosiva: sono stati rivisitati i menu, riconsiderati i vincoli logistici e pianificati nuovi interventi sui social media e in ambito pubblicitario per rilanciare le nuove proposte, stando comunque attenti a limitazioni importanti e necessarie. I drink devono infatti essere serviti in contenitori sigillati, e la maggior parte delle volte devono far parte di un ordine che contempli anche del cibo. Sono quindi tagliati fuori i bar che non prevedono servizio di alimenti, mentre quelli attrezzati riescono a tenersi a galla.

Liquor.com, sito statunitense di primissimo livello, ha parlato con lo chef Alon Shaya, titolare di due realtà importanti come il Saba di New Orleans e il Safta di Denver: Shaya sostiene di essere nel complesso ottimista, soprattutto per il ristorante di Denver che riesce a rispettare i limiti imposti, ma come chiunque sia coinvolto in questa nuova realtà, non ha certezze. “Speranze, quelle sì, di vedere questo sistema di delivery sostenerci fino alla fine della quarantena. In realtà la consegna a domicilio dei drink ci permette di offrire un’esperienza ancora più immersiva nella nostra idea di ristorazione”. Largo spazio, per ovvi motivi, a soluzioni pre-batched, ovvero già miscelati e pronti da bere con ghiaccio. E le cose, apparentemente, vanno anche bene.

Il take-away può essere anche un’ottima soluzione per smaltire quanto tenuto in magazzino ed evitare sprechi: al Gemini di Chicago, la general manager Rebecca Christensen propone kit completi di bottiglie, frutta, bicchieri, a prezzi competitivi rispetto ai rivenditori generali di alcool, con il vantaggio di avere un pacchetto totale. Inutile sottolineare quanto l’anima del beverage negli USA sia New York, da settimane nell’occhio del ciclone Coronavirus in quanto apparente epicentro dell’epidemia statunitense: dopo il lockdown ordinato dal governatore Cuomo a metà marzo, l’intera industria si è mobilitata, dai bar aperti alle soluzioni to-go ai brand ambassador di qualsiasi prodotto, che si sono attivati per creare network. Stephen Myers di Mr Black Spirits, e Herminio Torres di Ilegal Mezcal, hanno creato una mappa che segnala le realtà attive, dando modo ai cittadini di sostenerle e servirsene.

La vendita di drink a domicilio, combinata con la necessaria aggiunta di proposte food (fosse anche solo un piccolo dessert), si sta rivelando fonte importante di reddito, specialmente in tempi di crisi. Resta da comprendere quali possibilità abbia questa novità di diventare profittevole anche nel lungo periodo, nell’ottica di un’eventuale ripresa. Per quanto, al momento, i guadagni paiano essere l’ultimo dei problemi, paradossalmente: “Non lo stiamo facendo esclusivamente per questioni economiche”, racconta Channing Centeno, bar manager di Otis a Brooklyn. “Ci preme ancora di più mantenere il contatto con la nostra comunità e la nostra clientela, per dimostrare loro che ci siamo anche nei momenti più duri”. Non serve, né sarebbe ovviamente logico, avere una drink list complessa e elaborata per ovviare alla dimensione take away e delivery. Centeno propone una mini lista di tre drink, ognuno dei quali disponibile per due o sei persone: Espresso Martini, Mezcal Negroni e un cocktail con whiskey. Brillante l’aggiunta di un’opzione date night, completa di antipasto, primo e secondo.

L’idea generale, in ogni caso, è che al momento anche un guadagno minimo è meglio di nulla. In Alabama, dove i distillati possono essere venduti singolarmente ma nei propri contenitori originali, realtà come il Queen’s Park di Birmingham si accontentano di lavorare come rivendita di super alcolici e nulla più (se non per alcuni prodotti analcolici), oltre a birra e vino. E questo porta a una visione piuttosto ampia della problematica: “Al momento va bene vendere in qualsiasi modo, ma non so quanto durerà, dopo la fine del lockdown”, spiega Phillips Armstrong dell’Aurum Steamboat in Colorado. “I rivenditori offrono prodotti a prezzi dimezzati. Il bar in fondo è un’esperienza, l’asset principale è il lato sociale”. 

Va bene essere ottimisti, ma bisogno anche guardare la realtà: servono garanzie e sicurezza da parte delle autorità governative. Agevolazioni, sostegno per evitare enorme disoccupazione, iniezione di finanziamenti. Per non parlare del sistema assicurativo, che in USA è asfissiante ai massimi livelli e non copre di certo un evento come quello pandemico. In definitiva, la soluzione take-away o delivery, per i cocktail e l’industria del bere, sembra essere un rimedio temporaneo apprezzabile, soprattutto alla luce dei movimenti che sostengono le attività e i lavoratori. Ma perché i locali restino a galla, serve qualcosa di più serio. 

 

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