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Ci si sente come manichini, giocattoli di legno mossi da qualche vento incerto che muove o meglio dire che smuove tutti, la massa. Camminando dopo molto tempo per le vie del centro di Torino in cerca di un pensiero da portare a un amico, mai pago di fare festa – il che è un bene in questo periodo per lo stato dell’umore – ci si accorge di come le cose non siano poi così cambiate, nonostante la pandemia. Balle…

 

Siamo noi ad essere cambiati. È cambiata la nostra visione del mondo e delle priorità. Molte delle luci natalizie sono ancora lì, appese, e accese. Che il tempo, nella mente di molte persone, si sia fermato? No, è un urlo, una richiamo visuale per le persone che passeggiano e che magari potrebbero decidere di entrare. Ma c’è anche un altro aspetto, un elemento che si nasconde un po’ in tutti noi: la paura di affrontare la verità. E questa verità diventa sfida, si decide di aprire il locale o il negozio anche se si rischia di non far quadrare il bilancio a fine mese.

“Ma tanto…peggio di così non può andare”- diceva il negoziante. “È tutto chiuso, non bisogna uscire, cosa andiamo a fare in centro?” – diceva una figlia alla madre. Ebbene, entrambi, si sbagliavano. Le attività sono aperte, la gente attende in fila e anche nelle enoteche che propongono dai vini più semplici a quelli di grido, c’è la fila (poca) per entrare. Quella invece davanti alle gastronomie ed alla Apple creano un certo traffico sotto i portici. Per fortuna ci sono le transenne a sistemare tutto. Manca solo il conta fila.  In mezzo alla frenesia, e al ritardo già accumulato per arrivare al pranzo, si riceve una “chiamata salvavita”: l’incontro è posticipato alla sera.

Si può continuare a vagare alla ricerca di qualcosa da portare ad Alessandro Vaudagna. Frattanto lui, Alessandro, aveva già aperto la bottiglia, per farla respirare un po’, in attesa di assaggiarla al meglio. Non più a pranzo però, ma a cena. Ignari di tutto, arrivano le 19.00 e si rimedia un prodotto artigianale; nell’attesa dell’incartamento inizia la chiacchiera – confronto, molto piacevole, con la giovane ragazza che segue i clienti nel laboratorio dolciario. Circondati dai prodotti, si nota la cura dei pacchi e della profondità dell’offerta di tisane, vini, biscotti, sughi, tutti abbelliti manco fossimo a un matrimonio. Sono sicuramente confezioni mai comprate a Natale. Ma l’amarezza che assale non impedisce di andare a trovare il vecchio amico amante della Borgogna.

Con Louis Amstrong in sottofondo, dopo due ore, il vino nel decanter non si è ancora assaggiato. Ma c’è un profumo di frutti che invade tutto, una rugiada fruttata che avvolge anche l’aria. Inebria già al naso, conquista, e fa ballare. Asfalta ogni pensiero e gusti provati poco prima. Il registro è impostato su note incisive, e ben inserite in un dinamismo che non stanca. Ma chi può essere?  “Erika, sono pochi i vigneron che riescono a produrre un vino così, è un Gevrey-Chambertin Bel-Air Premier Cru 2012 di Philippe Pacalet. Ma non c’è alcun richiamo, al naso, che riporta allo stile della cantina!  “Bisogna sapere aspettare” – aggiungerà Alessandro. Non pare possibile, ma è vero, e non è un caso unico. L’attesa e l’imprevisto ci hanno fatto scoprire una nuova verità di un vino pieno di lamponi, melograno e spezie dolci che si intonano alla mineralità che accompagna al centro della beva in un sorso inedito, così dolce, e così elegante. C’è una potenza celata in una leggerezza e un nervo acido che fanno sorridere. “Negli ultimi anni Pacalet, già al naso, esprime la sua stoffa e una pulizia che ammalia”. Energico, è il compagno perfetto per la (prima parte) della serata. Il vino finì, ovviamente. Ma dopo di lui ne arrivò un altro. To be continuerà…

 

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