Secondo l’ultimo studio di Nomisma, il fatturato della Ristorazione Collettiva Italiana supera i 4,4 miliardi di euro, ma il Risultato Operativo segna un -69% rispetto al 2018. Un dato che, pur in un comparto essenziale per salute e inclusione, evidenzia il rischio stallo per un settore ad alto valore sociale.
Le 1.000 aziende della filiera, con il lavoro di 100.000 addetti (di cui l’80% donne), garantiscono ogni anno 780 milioni di pasti sani ed equilibrati, con un prezzo medio di 5,7 euro (5,3 euro nella ristorazione scolastica), destinati a studenti, pazienti, lavoratori e persone in difficoltà. Un presidio fondamentale di salute pubblica e coesione sociale.
“A fronte di un contesto caratterizzato da incertezza e crescenti criticità, la ristorazione collettiva chiede un dibattito costruttivo tra istituzioni, imprese e policy makers per il rinnovo di un quadro normativo diventato inestricabile. Trovare soluzioni in linea con i cambiamenti socioeconomici degli ultimi anni è un impegno che Oricon prende per prima, ma che necessita della collaborazione di tutti gli attori coinvolti. Esiste il rischio di uno stallo di un settore ad elevato valore sociale collettivo” – afferma Carlo Scarsciotti, Presidente di ORICON, l’Osservatorio Ristorazione Collettiva e Nutrizione, durante l’incontro “Ristorazione collettiva: un settore strategico tra pressione normativa e opportunità di crescita”.
Fatturato stabile, margini in caduta
Pur avendo recuperato il fatturato pre-pandemia, il settore registra margini drasticamente ridotti, sotto la pressione di:
- +19% dei costi delle materie prime alimentari dal 2018
- +37% carbone, +36% gas naturale, +28% petrolio
- Quadro normativo rigido, che coinvolge ben cinque ministeri (Infrastrutture, Ambiente, Istruzione, Agricoltura e Salute), oltre alle normative regionali.
Nel 2023, il comparto ha registrato un EBITDA margin al 3%, in calo dal 6% del 2018.
Una pressione che si traduce in erosione dei margini
Lo studio Nomisma sottolinea come l’adeguamento normativo e ambientale, se non accompagnato da strumenti efficaci, riduce la sostenibilità economica, specie nei segmenti ad alta quota di appalti pubblici.
Confrontando i dati con la ristorazione commerciale, emerge una sproporzione: stessi costi di personale e materie prime, ma ricavi bloccati dalla rigidità degli appalti. La normativa impone standard qualitativi e quantitativi, ma non garantisce l’adeguamento dei prezzi in caso di aumenti significativi.
“Evitare che le imprese siano gli unici attori del sistema a sostenere i costi del cambiamento è necessario per garantire continuità occupazionale e qualità” – afferma Sara Teghini, Senior Advisor di Nomisma – “Le rigidità regolamentari limitano la possibilità di adattare l’offerta, incidendo sui margini e sull’efficacia del servizio dal punto di vista sociale e del welfare”.
Fonte: www.nomisma.it