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Lo scorso anno l’equivalente di 600 milioni di bottiglie di vino italiano ha preso la direzione di Usa e Canada, per un controvalore di 2,7 miliardi di dollari e una crescita sul 2020 del 17%. Nello stesso anno i due Paesi nordamericani hanno totalizzato un import di vino per più di 9,3 miliardi di dollari, quasi 1/4 del valore globale delle importazioni di vino.

 

L’Italia e la Francia – che dominano i mercati – tornano a brindare, è il caso di dirlo, in particolare grazie a una “revenge spending” spumeggiante, con il Prosecco che da solo vale ormai 1/4 della domanda americana di vino tricolore e rappresenta a volume quasi il 25% dei consumi domestici di bollicine. Sparkling sì, ma anche i grandi rossi fermi, in un contesto competitivo della tipologia molto favorevole per le due superpotenze enologiche in Nord America, in particolare per Bordeaux, Borgogna, rossi toscani e piemontesi.

 

 

È tutto oro, quindi, ciò che luccica nell’area più ambita dai produttori italiani? Secondo l’analisi “The way to North America” dell’Osservatorio Uiv-Vinitaly non è proprio così. Il convitato di pietra è dietro l’angolo e riguarda principalmente una questione demografica che rischia di cambiare profondamente l’assetto storico dei consumi. Negli ultimi tre anni, gli Usa hanno perso 12 milioni di consumatori regolari di vino (passati da 84 a 72 milioni nel 2021), in un quadro attuale che vede quasi la metà dei wine lovers concentrati nella fascia più anziana – quella dei Baby Boomers (oltre 57 anni) – ma che vale il 31% della popolazione statunitense. Ad abbandonare il calice di vino, spesso in favore di altre bevande come gli hard seltzer, i ‘ready to drink’ o la Tequila, sono le persone più giovani (tra 21 e 41 anni), artefici di una emorragia di 11 milioni di consumatori. A oggi la fascia a cavallo tra Gen Z e Millennials, pur rappresentando quasi la metà della popolazione, vale solo il 28% della platea dei regular wine drinker.

 

 

Assieme all’elemento demografico, anche quello etnico sta giocando un inaspettato ruolo “sottrattivo” sui consumi: se le fasce più anziane sono dominate dai bianchi, più si scende nella scala demografica più i pesi si riequilibrano, a favore soprattutto degli ispanici, ormai prevalenti negli Stati confinanti col Messico, come Texas e California. Non è un caso che i vini italiani “classici”, come i bianchi fermi, marcatori generazionali dei Baby Boomers, vedano concentrato il proprio consumo sulla East Coast, dove prevalgono proprio i bianchi. A Ovest, invece, il consumo di vini italiani è più eterogeneo: più Prosecco, rossi fermi e frizzanti, rosati, meno vini bianchi.

“L’indagine – ha commentato il direttore generale di Veronafiere, Giovanni Mantovani – dimostra come non si debba mai dare per scontato il successo di un mercato, come quello nordamericano, per nulla maturo. Il vino italiano, ma non solo, dovrà investire in nuovi prodotti, in azioni di marketing diretto sui consumatori, oltre a intensificare il business con gli operatori di mercato. Vinitaly potrà essere uno strumento in grado di assecondare un duplice obiettivo: da una parte consolidare una domanda professionale sempre più orientata su prodotti premium, dall’altra lavorare per rinnovare la comunicazione del prodotto presso il target consumer”.

 

 

Per il segretario generale Unione italiana vini, Paolo Castelletti: “Senza l’exploit degli spumanti, negli Usa la crescita media annua nell’ultimo decennio si dimezza (da +4% a +2%); se si escludono anche gli altri 2 grandi protagonisti del mercato come i bianchi neozelandesi e i rosé francesi, la performance indietreggia a +0,7%. Questo la dice lunga, al netto di un ultimo anno dopato dalla reazione al Covid, su come servirà rinnovare i modi, i canali e la struttura dell’offerta del futuro”.

+info: www.vinitaly.com
Servizio Stampa Veronafiere:

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