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Quando a Luglio fu annunciato l’arrivo di Paolo Lavezzini alla guida dei fornelli del Palagio presso Four Seasons Firenze, è  possibile che erroneamente appassionati e clienti si siano fatti trarre in inganno dalla narrazione di uno chef “dal cuore italiano e dall’anima brasiliana”  e non è da escludere che alcuni abbiano addiruttura temuto che, data la lunga carriera estera, avrebbe potuto arrivare in città per stravolgere con arroganza l’idea della cucina nostrana.

In effetti il curriculum dello chef di Salsomaggiore Terme, dopo anni in Francia (tra Carpaccio al Royal Monceau e Alain Ducasse*** al Plaza Athénée a Parigi), e con gli ultimi anni di carriera spesi in Brasile da Executive Chef per l’Hotel Fasano a Rio de Janeiro prima, e da Four Seasons Hotel São Paulo poi, poteva trarre in inganno.

Ma basta parlarci per pochi minuti per capire che delle esperienze passate Lavezzini ha portato un bagaglio molto diverso (e per certi versi più pesante) di quello che ci si poteva aspettare. Come lo stolto che guardava il dito di Mao, anche qui nel dettaglio dell’esperienza estera si è mancato di notare quella che era la luna indicata: nel vivere nel paese della foresta amazonica, della frutta fresca che parte su aerei intercontinentali, degli sterminati allevamenti bovini, Lavezzini ha imparato che la cucina ha un’anima, e quest’anima deve essere anche etica e rispettosa dell’ambiente.

Proprio per questo il primo menù a sua firma della nuova stagione del Palagio, finalmente riaperto e tornato ai fasti di una volta,  si incentra su una proposta che non ragiona sui chilometri, ma sui metri, come si evince dal nome stesso “della Gherardesca”, ovvero il parco antistante l’omonima villa che ospita l’Hotel: sei portate che prendono per mano il cliente e lo portano  in un viaggio alla scoperta della Toscana.

Un menù divertente, che parte con uno scrigno in cui i quattro amuse-bouche sono studiati per richiamare le forme e  colori del parco. A seguire troviamo quello che forse è il piatto dalla mentalità più internazionale, ovvero “Melanzane marinate, pecorino maremmano, gelato al pomodoro e rabarbaro” che gioca sulle consistenza e sulle temperature, spingendo anche molto su note al contempo vegetali e aspre.

Ma se dovessimo dire qual è il piatto iconico di questo primo menù, il simbolo di questo chef che con semplicità vuol solo raccontare il gusto, è senza dubbio alcuno il “Risotto leggermente affumicato e cavoli di stagione”. Questo primo piatto di straordinaria semplicità, pare alla lettura su carta quasi scomparire nella narrazione delle sei portate, messo lì un po’ per gioco e un po’ per errore, quasi a riempire uno spazio rimasto disponibile.

Ma quando viene servito, la percezione si ribalta, e come ne “I Tagli” di Lucio Fontana lo squarcio diventa ancora più impressionante per via della semplicità dello sfondo. Notevole il lavoro di selezione delle diverse tipologie di cavoli (per altro in pieno rispetto della stagionalità), proposti a varie consistenze, e soprattutto la convivenza degli stessi nel piatto  con il burro affumicato, il tutto coadiuvato da una cottura impeccabile.

Si prosegue con  Agnolotti di faraona, crema di Parmigiano  Reggiano e funghi Porcini,unico omaggio alla terra natia, e si volge in conclusione con “Spalla di agnello brasata e glassata alla liquirizia selvatica, misticanza all’uva e cuori di lattuga”.

Se illusoriamente molti si potevano attendere frutta nei piatti principali, in stile brasiliano, forse è inatteso il ruolo delle piante aromatiche e dei sughi nel dolce:  si chiude infatti con “Variazione di mela verde e lime, olio extravergine e pesto di basilico  e mandorle”

Anche il resto del menù è costruito con ingredienti locali, come dimostrano piatti tipo “l’Uovo della fattoria di Maiano, funghi porcini del  Casentino al limone e aglio canditi”, e che non teme di variare in base al pescato del giorno o del fermo pesca, ma si accontenta di accogliere con gioia ciò che arriva dai porti toscani.Ammireviole la voglia di osare sugli abbinamenti nel bicchiere, che spaziano dal vino alle bolle, dal saké finanche al succo di melograno, senza sbagliare un passaggio.

Perché per fare cucina per bene, in maniera internazionale, non vuol dire portare i sapori del mondo nel piatto, ma bensì portarci il mondo: e il pianeta in cui viviamo ha bisogno di figure responsabili come Lavezzini, che preferisce presentarsi con riso, burro e cavoli, lasciando ad altri i fasti decadenti di cornucopie di Açaí, Acerola e Caju. é questa è un’ottima prima lezione con cui presentarsi alla sua nuova città.

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