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Definizione e percezione della birra artigianale in Italia


Articolo pubblicato sull’annuario settoriale Birritalia 2013-14

La definizione/individuazione della vera birra artigianale sembra essere un problema che esiste solo per noi e al limite per gli americani mentre nel resto d’Europa, con rare eccezioni, pare che nessuno se lo sia mai posto né soprattutto abbia intenzione di farlo mentre da noi è scottante materia di infinite discussioni che coinvolge produttori, addetti ai lavori e consumatori, specie in rete, su blog e forum. La qualificazione di birra artigianale incredibilmente non é stata ancora definita con precisione né a livello associativo né legale e quindi può essere vantata, anche se non apposta sulle etichette, da chiunque cerchi di cavalcare l’onda con l’evidente e demagogico intento di creare confusione nel consumatore.

Da vetusto degustatore-scrittore ma soprattutto da grande appassionato, per non dire uno dei padri del movimento artigianale quale vengo unanimemente ritenuto, credevo che, forse con eccesso di anacronistico romanticismo, un artigiano che produce birre per il proprio birrificio o per il proprio brewpub, dovesse dedicare la maggior parte del suo tempo e delle sue energie proprio a fare il suo mestiere, cioè a fare birre. Invece dai “miei” birrai raccolgo incessanti lamentele sulle continue perdite di tempo ed energie dovute ad interminabili file negli uffici amministrativi, nonché ad improvvise visite di controllo, quasi sempre mentre ci si sta concentrando sulle delicate fasi della birrificazione, da parte di solerti funzionari di vari enti ed autorità che, nella maggior parte dei casi, non sanno nemmeno cosa si stia realmente producendo. L’elenco di motivazioni di sanzioni è lunghissimo e a volte grottesco. Solo per fare un esempio, un birrificio triestino è stato multato per aver messo il puntino dopo la “elle” di litro nel listino prezzi! Si parla tanto di aumento drammatico ed esponenziale della disoccupazione giovanile e proprio non si capisce perché non si cerchi di incentivare ed aiutare, invece di ostacolare per mezzo della solita deprecabile burocrazia all’italiana, questi giovani imprenditori-artigiani che in un periodo di crisi profonda che sta attanagliando e soffocando il nostro paese, hanno saputo, in controtendenza, far nascere e dare impulso ad un settore nuovo “che tira”‘ e che crea posti di lavoro, indotto e un’ulteriore eccellenza nel nostro ricco e variegato panorama enogastronomico.

Si parla tanto di incentivare il turismo, elemento fondamentale per la nostra asfittica economia ma lo sanno il ministro e gli enti di promozione che, sull’onda della nostra straripante “Renaissance” sia recentemente nato e stia rapidamente crescendo un esaltante turismo birrario? Gli stranieri appassionati di birre lo sanno eccome! Sempre più spesso, alla classica richiesta “vengo in vacanza in Italia con mia moglie, mentre lei passa ore nei musei, dove posso trovare buone birre artigianali italiane?” se ne sta aggiungendo una nuova cioè “mi prepari un itinerario che mi permetta di godere delle vostre bellezze naturali e artistiche ed al tempo stesso visitare microbirrifici e brewpubs per conoscere i vostri birrai e godere buone birre artigianali italiane?” Ma nelle sfere del potere lo sanno che in Italia abbiamo più di cinquecento produttori artigianali? Temo proprio di no come di certo non sanno che i nostri artigiani stiano imponendo un inedito “Made in Italy” sempre più conosciuto ed apprezzato sia in Italia che all’estero con birre originali, espressione della nostra straordinaria biodiversità, che impiegano ingredienti locali, forniti da altri artigiani operanti nel loro territorio, come cereali, erbe, ortaggi, spezie per non parlare della straripante tendenza di legare il mondo delle birre con quelle dei vini soprattutto con l’utilizzo di mosti, lieviti e il sempre più frequente ricorso alla barrique.

Eppure incredibilmente non si è ancora risolta l’annosa questione della definizione di “birra artigianale” che merceologicamente non esiste e che quindi se apposta sull’etichetta di una birra comporta per il birraio in questione una multa che oltre all’indubbio danno economico rappresenta una beffa difficile da digerire. Eh sì sembra assurdo ma da noi esistono birrai artigianali che fanno per bene cose buone non pastorizzate, ricche di aromi e di sapori che tutti chiamano birre artigianali e che lo sono perché fatte dagli artigiani ma che paradossalmente essi stessi non possono dichiarare e quindi identificare come tali sulle etichette delle loro bottiglie. Questa qualificazione, incredibilmente non é stata ancora definita con precisione né a livello associativo né legale e quindi può essere vantata, anche se non apposta sulle etichette, da chiunque cerchi di cavalcare l’onda con l’evidente e demagogico intento di creare confusione nel consumatore. Questo vuoto legislativo stride ancor di più se si tenga conto del fatto che in realtà abbiamo sia una definizione giuridica-organizzativa generale di impresa artigiana sia delle birre stesse.

La prima sostanzialmente ci dice che l’artigiano è “colui che esercita personalmente, professionalmente e in qualità di titolare l’impresa artigiana, assumendone la piena responsabilità con tutti gli oneri e i rischi attinenti alla sua direzione e gestione e svolgendo in misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo” mentre la seconda fa tragicamente sorridere non tanto nella definizione “tout court” di “prodotto ottenuto dalla fermentazione alcolica con ceppi di saccharomyces carlsbergensis o di saccharomyces cerevisiae di un mosto preparato con malto, anche torrefatto, di orzo o di frumento o di loro miscele ed acqua, amaricato con luppolo o suoi derivati o con entrambi quanto nell’arida classificazione delle birre in base al grado saccarometrico. Copio e incollo dall’art. 2 D.P.R. 30.06.98 n.272: la “birra analcolica” deve avere un grado Plato (saccarometrico) non inferiore a 3 e non superiore a 8 e con titolo alcolometrico volumico non superiore a 1,2%. Per “birra leggera” o “birra light” si intende un prodotto con grado Plato non inferiore a 5 e non superiore a 10,5 e con titolo alcolometrico volumico superiore a 1,2% e non superiore a 3,5%. La denominazione “birra” invece è riservata al prodotto con grado Plato superiore a 10,5 e con titolo alcolometrico volumico superiore a 3,5%; tale prodotto può essere denominato “birra speciale” se il grado di Plato non è inferiore a 12,5 e birra doppio malto se il grado di Plato non è inferiore a 14.5. Infine quando alla birra sono aggiunti frutta, succhi di frutta, aromi, o altri ingredienti alimentari caratterizzanti, la denominazione di vendita è completata con il nome della sostanza caratterizzante”. Mon dieu!

Per far finalmente comparire legalmente il termine “birra artigianale” inquadrandolo in una fattispecie merceologica e ponendo fine ad un assurdo equivoco culturale e, già che ci siamo, per far scomparire termini senza un senso logico per non dire ridicoli come “birra speciale” e “birra doppio malto”, chi dovrebbe farsi portavoce ufficiale presso le cosiddette autorità competenti? Risposta fin troppo facile: ovviamente un’associazione di categoria che raggruppi e rappresenti tutti i birrai artigianali! Stupisce quindi come l’Unionbirrai, che in teoria dovrebbe svolgere il ruolo di punto di riferimento, non si sia mai voluta confrontare su tale spinoso problema né tantomeno collegarsi alla definizione giuridica di impresa artigiana su menzionata, interamente scaricabile da www.ilcommerciale.com/Impresa/aspirante%20imprenditore/Artigiano.htm

Come spesso accade nel nostro folcloristico paese, saranno probabilmente azioni individuali, del singolo o al massimo di pochi, a tentare concretamente un cambiamento. Nel frattempo possiamo lavorare e divulgare, ognuno nel proprio campo di competenza (detesto i tuttologi), per dare almeno una definizione “etico-culturale” che ben sappia chiaramente differenziare e diversificare il prodotto artigianale da quello industriale. Si può senz’altro fare mentre la vedo più dura per quelle birre “non troppo industriali né abbastanza artigianali”:-) apparse sugli scaffali dei supermercati. Condivido in toto il malessere e il malcelato malcontento che serpeggiano tra i nostri birrai che fanno grandi birre artigianali senza che possano scrivere sulle loro etichette quello che abbiano fatto ma solo termini generici che portino ad accomunare le loro creazioni, paragonabili a mobili fatto a mano da artisti dello scalpello e della pialla ad anonime birre industriali paragonabili a mobili preconfezionati da montare a casa. Ora direi sia giunto il momento di dare voce ai protagonisti e ho quindi voluto interpellare al riguardo uno dei nostri più valenti birrai, il sardo Nicola Perra del Birrificio Barley, per la sua lotta in prima linea e l’indubbia capacità di analisi e raccogliere le emblematiche testimonianze di due birrai sanzionati per avere scritto “birra artigianale” sulle loro etichette, l’abruzzese Jurij Ferri del Birrificio Almond 22 e il piemontese Teo Musso di Birra Baladin, il più famoso, mediatico e carismatico produttore italiano.

IL PARERE DI NICOLA PERRA DEL BIRRIFICIO BARLEY
Ho chiesto cosa ne pensassero il caro amico Nicola Perra e il suo affiatatissimo socio nonché cognato e commercialista Isidoro Mascia che a Maracalagonis nel cagliaritano, hanno saputo imporre una qualità di alto livello e una costanza che hanno garantito una solida reputazione in Italia e all’estero. Ecco qui integralmente e testualmente cosa mi ha detto Nicola nelle vesti di portavoce. “Il quesito che ci poni è qualcosa col quale ci confrontiamo praticamente tutti i giorni e, nonostante io veda molto chiaro come debba essere formulata la definizione di “birra artigianale”, mi rendo conto che in Italia di questa nomenclatura è stata fatta “carne di porco” non solo da parte dell’industria, ma anche (soprattutto) dai sedicenti produttori artigianali.

Ma andiamo per gradi. Per come la vedo io tale definizione deve coinvolgere prima di tutto gli “artigiani” appunto che, così come recita la definizione legale devono essere iscritti nell’apposito “albo delle imprese artigiane”, che quindi lavoreranno in un'”impresa artigiana”, registrata a sua volta nella sezione speciale del suddetto albo della Camera di Commercio. Il prodotto “birra” che uscirà da tale impresa sarà una “birra artigianale”, in quanto fatta “ufficialmente” da un’impresa artigiana e quindi da uno o più artigiani. Ma non basta: bisogna mettere dei confini anche sul sistema produttivo, perché la birra si possa “fregiare” dell’aggettivo artigianale. Si è dibattuto a lungo sull’altezza alla quale posizionare l’asticella che definisca il limite produttivo per un birrificio artigianale e molti sarebbero d’accordo nel fissarla sul limite massimo di 10mila ettolitri/anno.

Altro paletto da mettere, a mio avviso, senza se e senza ma, è evidentemente la NON PASTORIZZAZIONE. Sul discorso della filtrazione non entro neppure, in quanto è un metodo che adottano molti birrifici artigianali per chiarificare la birra, in modo più o meno spinto. I modi per chiarificare la birra sono davvero tanti, come ben sappiamo, ma pochissimi adottano il sistema della chiarificazione solo “a freddo”, giacché ciò richiede un tempo di stazionamento della birra nei serbatoi di maturazione davvero elevato…come facciamo noi. Non vedo male la centrifuga, in quanto sistema basato su un principio fisico (la centrifugazione della birra, appunto): dalla velocità alla quale far andare la centrifuga si decide quanto “ripulire” la birra.

Ci vogliono però quantitativi di birra abbastanza elevati -rispetto alla media delle dimensioni d’impianto della stragrande maggioranza dei produttori italiani- che giustifichino l’acquisto di una macchina così costosa. Però un altro paletto a questo punto lo metterei, ossia il DIVIETO ASSOLUTO DI UTILIZZARE ADDITIVI CHIMICI (chiarificanti, enzimi, antiossidanti, stabilizzanti della schiuma etc etc…), altrimenti davvero saremmo molto vicini alla produzione di stampo industriale. Mi rendo conto che tra noi birrai italiani ci sono visioni diverse sia sulla concezione produttiva della birra artigianale, che nella conduzione commerciale dell’impresa artigiana. Poi c’è il discorso delle “beer firm”, ossia di quelle birre fatte da altri produttori per un marchio terzo, il cui titolare non possiede un impianto di produzione. In questo caso, se il prodotto viene fatto da un’impresa artigiana, definita come sopra, allora ciò che verrà fuori, prodotto per terzi, sarà sempre una birra artigianale, ma il marchio della “beer firm” non potrà definirsi “produttore”, né tantomeno “birrificio artigianale”, in quanto sarà un semplice rivenditore/distributore di quella “beer firm”.

Poi capita il caso, “la mia birra me la faccio fare in quell’impianto, su mia ricetta…ma solo per un periodo limitato”, quindi un noleggio a termine dell’impianto durante una fase transitoria della propria impresa, come spostamento degli impianti ed apertura in una nuova location e magari ampliamento dell’impianto stesso. Insomma, una fase transitoria per non perdere mercato e incassi. Ben altra cosa è cavalcare l’onda di successo (attuale…) della birra artigianale italiana e infilarcisi, attraverso produzioni assegnate ad altri, con proprio marchio, e farsi passare per “produttori di birre artigianali”. La trovo una cosa scorretta, non illecita, ma decisamente scorretta, specie quando gareggiano a concorsi nei quali, se prendono un premio, non si sa onestamente a chi lo si dovrebbe assegnare (se al produttore effettivo o a chi detiene il marchio della beer firm premiata). E’ una cosa scorretta anche nei confronti di chi ha un’impresa artigiana che si accolla tutti i costi e i rischi d’impresa, che tale attività produttiva comporta, dato che un imprenditore artigiano (quale sono io e il mio socio ad es.) produce e vende, mandando avanti prima di tutto un’impresa, poi “birraria” e poi “artigianale”. Credo che con questa spiegazione il nostro pensiero sia molto chiaro :-)

IL PARERE DI JURIJ FERRI DEL BIRRIFICIO ALMOND ‘22
Ora passiamo ad un altro caro amico mio, Jurij Ferri, mamma svedese e padre abruzzese che nel 2003 da chef si è trasformato in apprezzato birraio nel suo Almond 22 di Spoltore vicino a Pescara. L’ho intervistato ponendogli tre domande.

K. Jurij qual’è la tua opinione sulla lacunosa definizione di birra artigianale nel nostro paese?

J. Credo sia un grande danno per tutto il comparto, chiunque può sfruttare a suo piacimento il nome “birra artigianale”. Questo oltretutto crea confusione nel consumatore al quale se chiedi cosa è una birra artigianale, se ti va bene, ti dice che è una birra cruda e neanche sa cosa sia una birra cruda. Poi che triste definizione ” birra cruda”, termine risalente a più di 30 anni fa quando fummo invasi dalle weiss teutoniche. Nessuno può realmente in questo momento dare una vera definizione di questo prodotto e l’ambiguità tra l’altro gioca anche a favore di alcuni produttori a cui questa poca chiarezza fa comodo.

K. So che hai dovuto pagare una multa per aver scritto birra artigianale sulle tue etichette. Conoscendo la tua proverbiale onestà e correttezza, raccontaci cosa è successo.

J. Nulla di particolare, mi sono fatto fregare dal mio essere logico. Ho pensato che essendo un artigiano e avendo una licenza come opificio per la produzione di birra artigianale, fosse scontato poter definire “artigianale” il mio prodotto. Grosso errore, visto che a livello merceologico la birra artigianale non è mai stata registrata. Quindi non esiste! Il “cogito ergo sum” non è applicabile al mio lavoro. Ho un birrificio artigianale, sono un artigiano ma non posso definire artigianale la ma birra e allora cosa sono e cosa produco? Spiegatemelo voi!!! Diretta conseguenza è stata una multa per aver definito il mio “prodotto” birra artigianale.

K. Hai dei suggerimenti costruttivi da girare a chi di competenza? Sempre ammesso che si sappia chi sia di competenza:-)

J . Vorrei che le associazioni di categoria già esistenti si concentrassero su questo problema. Se sono associazioni di categoria devono definire il prodotto che rappresentano. Dovrebbero capire che se la birra artigianale non esiste, non esistono neanche loro. Se fossero più rappresentativi ed efficienti credo che saremo molti più ad iscriverci. Tristemente penso che ci sia anche molta mancanza di interesse e competenza da parte di molti colleghi che si improvvisano. Chiunque pensa che sia l’affare del momento, la tendenza da seguire, ritenere che un birrificio è sia un business sicuro. Ebbene io non mi sento una moda, né un business, la mia come quella di molti colleghi competenti, è una scelta di vita. Come tale deve essere rispettata. Chi fa birra cattiva, chi propina birre piene di difetti al pubblico, non merita di usare il nome di “birra artigianale”. In definitiva la colpa è nostra!!!! La colpa è di una casta di birrai che non vuole ancora capire la necessità di una unica, forte, seria e credibile associazione di categoria. In Italia troppe “prime donne” e troppa mancanza di professionalità nonché scarsa capacità organizzativa……. siamo italiani neh?!?

-> Seconda parte dell’articolo

IL PARERE DEL BIRRIFICIO BALADIN
Teo Musso, neo papà per la terza volta (dopo Isaac e Wayan avremo, anche se non subito, una nuova birra di nome Soraya) mi ha accoratamente espresso al cellulare la sua opinione che nonostante una multa molto salata, in parziale controtendenza, tende non a biasimare chi applichi una legge anche se ritenuta carente ed inadeguata ma bensì chi non abbia tenuto conto degli obblighi e dei divieti contenuti in tale legge. Ciò non toglie che, dopo questa doverosa dimostrazione di onestà intellettuale, Teo assicuri di lavorare costruttivamente per arrivare ad una benedetta legge che risponda alle esigenze dei nostri imprenditori-artigiani. Tramite il suo collaboratore Fabio Mozzone, a cui il genio di Piozzo ha affidato la direzione del settore marketing, ricevo, raccolgo e divulgo il Teo-pensiero al riguardo.

“Di base il problema è ormai noto. Non esiste una legge che definisca il termine birra artigianale. Chiaramente chi si oppone ai produttori che dichiarano il frutto del loro lavoro come birra artigianale di base non sbaglia perché non esiste, appunto, una definizione legale. Questo però nella ragione comune è un’evidente carenza. Attualmente che il produttore sia una multinazionale o una micro realtà, non fa differenza agli occhi del legislatore. Se poi si cerca su un motore di ricerca le parole “birre artigianali”, compaiono tutta una serie di produttori che sono potenzialmente a rischio di sanzione per ciò che dichiarano. Sempre sul web qualcuno ha utilizzato Wikipedia per esprimere il suo pensiero sul termine “birra artigianale” ma, ovviamente, si tratta solamente di un’opinione, sicuramente condivisa dalle masse, ma non dal legislatore. Baladin è stato iscritto all’associazione artigiani fino al momento in cui, trasformando la propria ragione sociale in società agricola, ha aderito all’associazione degli agricoltori. Questo è sicuramente stato un problema dal punto di vista formale. Ma è anche vero che la maggior parte dei microbirrifici sono brewpub e di conseguenza commercianti avendo collegata l’attività di produzione a quella di somministrazione. Dunque tutti hanno forse ragione e tutti torto. L’opinione pubblica, specie in questo momento, in Italia, ha un’idea abbastanza consolidata e chiara di cosa si intenda per birra artigianale ma questo può servire per evitare una multa, non per risolvere il problema della mancata legge che tutela o definisce il termine”.

IL PROBLEMA DELLA BIRRA ARTIGIANALE ALL’ESTERO
Ora facciamoci del male scoprendo come questo problema non passi nemmeno per l’anticamera del cervello delle altri nazioni europee. Ho coinvolto autorevoli colleghi di mezza Europa e tutti hanno affermato come praticamente non esista la qualificazione di birra artigianale senza che questa mancanza assilli o possa dare rogne ai birrai. L’esperto svizzero Laurent Mousson, conoscitore e grande amico del movimento artigianale italiano, conferma come, a sua conoscenza, nel suo paese non ci siano delle regole specifiche concernenti il termine “artisanal” / “handwerklich” mentre in Francia un “artisan” deve essere obbligatoriamente iscritto al registro professionale della sua specialità e può impiegare massimo 10 persone nella sua impresa. Nessuna idea invece sulla Germania ma Laurent ci dice come la nozione di “handwerklich” venga molto raramente utilizzata per vendere dei prodotti. Piuttosto si usa il termine “handgefertigt”, cheh significa “fatto a mano” quindi quando ci sono degli inganni è chiaro che scattino delle sanzioni. Tuttavia in Germania si comincia a parlare di “craft beers” quando si parla di birre di microbirrerie americane, ma essendo questa un’idea così nuova, non esiste un termine equivalente nella lingua tedesca.

Un altro amico ed esperto di caratura internazionale come l’olandese Jos Brouwer ci dice come nei Paesi Bassi e nello stesso Belgio non vi siano regole legali sull’utilizzo del termine “craft”, “artisanal”, “ambachtelijk” o altri aggettivi similari e che l’espressione “ambachtelijk gebrouwen” sia praticamente priva di significato tanto da essere tranquillamente considerata una frase vuota.L’esperto fiammingo Carl Kins avvalora tali affermazioni ribadendo che nulla al riguardo viene menzionato nella legislazione del Belgio dove nessuno potrebbe usare il termine “artisanal” che non è contemplato né regolato.

Anche l’irlandese John Duffy del Beoir, il locale movimento dei consumatori, usa il termine “frase vuota” con cognizione di causa dato che la loro associazione aveva richiesto di proporsi come l’autorità emettitrice di un marchio di fabbrica per il termine “birra artigianale irlandese”. L’ufficio brevetti ha invece ribadito come detto termine non sia in grado di servire come indicazione dell’origine commerciale dei prodotti e dei servizi che sono inclusi nell’applicazione e non essere percepito dai consumatori interessati come un’indicazione di origine commerciale ed ecco che quindi così per il termine “craft beer” non solo manca una definizione giuridica e a quanto pare non significa nulla di specifico anche per i consumatori.

Andando oltreoceano, sembra che pure in Canada, come testimonia la bravissima scrittrice degustatrice Mirella Amato, di chiare origine campane, non esista una definizione legale di “craft beer” così come non dovrebbe esserci neppure negli Stati Uniti dove però da tempo è in atto un vivace dibattito promosso dalla potente BA (Brewers Association) capitanata dal “papà dell’homebrewing” Charlie Papazian assistito da collaboratori di elevatissima caratura, dotati di grande competenza e spiccate capacità operative. Dal sito della BA ci arriva una definizione di birrificio artigianale americano. Deve avere tre chiarissime caratteristiche, essere piccolo, indipendente e tradizionale.

……Piccolo quando non superi una produzione annuale di 6 milioni di barili di birra (oltre 7 milioni di ettolitri!) attribuiti ad un birrificio cioè se due produttori di birra usano lo stesso birrificio, il numero non è cumulativo, cioè tutte e due possono produrre fino a 7 milioni di ettolitri. In più, queste aziende possono produrre “flavored malt beverages” (bevande di malto aromatizzate) che non contano come birre e dunque non devono essere incluse nel calcolo.

……Indipendente quando è posseduto o controllato per meno del 25% da parte di un membro di un’industria produttrice di bevande alcoliche che non sia esso stesso un birraio artigianale.

….Tradizionale se il birraio produca come maggior volume della sua gamma, una birra di puro malto oppure se il birraio stesso copra almeno il 50% della sua produzione con una birra di puro malto e il resto con birre in cui usi aggiunte atte a migliorare e non ad abbassare l’intensità degli aromi e dei sapori.

Nella filosofia della BA i birrifici artigianali sono piccoli produttori il cui segno distintivo è rappresentato dal concetto di innovazione intesa come interpretazione di stili classici con l’applicazione di nuove idee nonché la sperimentazione e lo sviluppo di nuovi stili non collegabili a precedenti riferimenti. Col termine “craft” si intende generalmente una birra fatta con ingredienti tradizionali, come l’orzo maltato ma spesso vengono aggiunti ingredienti interessanti e non convenzionali per apportare un carattere distintivo. I birrifici artigianali tendono ad essere molto coinvolti all’interno della propria comunità diventandone parte integrante attraverso la filantropia, donazioni di prodotti, azioni di volontariato e la sponsorizzazione di eventi. Inoltre hanno un approccio e un’interazione diretta ed individuale con i propri clienti. Mantengono la loro integrità attraverso i loro prodotti e la loro indipendenza, liberi dagli interessi che condizionano le birrerie industriali. La loro diffusione sta incrementandosi in modo esponenziale tanto che la BA orgogliosamente afferma come la maggioranza degli americani vive nel raggio di 10 km da un birrificio artigianale.

Tutto chiaro e condivisibile in pieno ma se guardiamo bene, neppure negli Stati Uniti esiste una legge che definisca la birra artigianale e da quello che ho capito, al legislatore importava soltanto il volume annuale e le tasse associate infischiandosene se una birra sia “craft” o no. In ogni caso, la Brewers Association vigila perché l’inarrestabile onda sta minacciando le grandi potenze. L’amico Paul Gatza, direttore della BA, mi ha riferito che già negli anni Novanta molti marchi di birre artigianali furono espulsi dai portfolio di distributori di birra che facevano parte della rete di vendita Anheuser-Busch che voleva da essi un’esclusiva sia “fisica” che “mentale”. Hanno anche minacciato di farlo di nuovo un paio di anni fa, invitando i grossisti a comprare dai distributori vicini se solo se trattavano prodotti Anheuser-Busch InBev o altri prodotti non ritenuti in grado di competere.

IL PARERE DI LUIGI D’AMELIO DETTO SCHIGI
Torniamo in Italia perché vorrei riportare il pensiero di uno dei più arguti ed intelligenti ambasciatori della nostra vivacissima scena birraria, Luigi D’Amelio detto Schigi, notissimo wine-sommelier nonché esperto di birre e, più recentemente, produttore molto apprezzato col marchio Extraomnes. Ecco cosa mi ha scritto Schigi. La birra artigianale esiste. Noi abbiamo questa bellissima parola, artigianale, che richiama l’arte, ma anche il lavoro giornaliero mentre in inglese viene usato il termine “craft”, che evoca altri scenari, molto più orientati sulla “tecnica” piuttosto che sul genio e l’inventiva. Un birraio artigiano si distingue per l’amore verso il prodotto, dalla scelta degli ingredienti, sui quali non si fa mai nessun calcolo economico, alla creazione della ricetta, a volte visionaria, alla sua realizzazione, sempre attenta e rispettosa dei tempi della natura. La cura della birra è il pensiero che ossessiona il birraio ventiquattrore al giorno. Anche dopo aver chiuso il birrificio la sera o per una festa, l’artigiano pensa in continuazione alla birra che sta fermentando, alla prossima che dovrà fare o alla maturazione di quella già imbottigliata. Tutte queste cose sono impossibili non solo da regolare, ma anche da descrivere in un ipotetico “disciplinare”. E’ per questo che è assolutamente inutile e anche un po’ ridondante scrivere “artigianale”. Quella birra, già dall’etichetta, dalla bottiglia, ma soprattutto dall’assaggio, non ha bisogno di ulteriori definizioni o “cappelli”: Comunica già da sola il grado di passione, lavoro, tecnica ed arte che sono stati utilizzati per produrla. E chi usasse la parola “artigianale” per definire le proprie birre, senza avere i requisiti minimi che ho elencato, danneggerebbe solo se stesso, in quanto il termine è troppo intriso di amore per poter essere sfregiato.

CONCLUSIONE
Una voce fuori dal coro? No, piuttosto un accorato riconoscimento al lavoro e alla dignità dei nostri agguerriti artigiani i cui straordinari prodotti parlano per loro senza il bisogno di bolle papali. Non avendo, come previsto, cavato un ragno dal buco ma almeno con la speranza di aver dato voce ad opinioni e testimonianze autorevoli, concludo con il sorriso riportando un episodio davvero paradossale. Beppe Vento, simpatia allo stato puro e talento naturale, birraio del comasco Bi-Du, uno dei nostri birrifici più considerati, aveva avuto l’idea di includere negli ingredienti apposti sulle etichette di tutte le sue magnifiche birre, accanto all’acqua, al malto d’orzo, al luppolo e al lievito, la parola “amore”. Informatisi sul pericolo di andare incontro a una multa, tutti i ragazzi dello staff del birrificio si sono messo alacremente al lavoro per cancellare la parola che fa girare il mondo. Quindi riguardo le birre artigianali, ammesso che esistano, si può scrivere “fatte con amore” ma non puoi mettere “amore” negli ingredienti “.

Per un’ampia panoramica sul mondo dei microbirrifici e sulle marche di birre artigianali in Italia si rimanda alla specifica sezione sull’annuario settoriale Birritalia: www.beverfood.com/quantic/negozio/product/annuari-beverfood-cartacei/birritalia-beverfood-annuario/

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