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Cannabis light, boom di consumo in quarantena: quale futuro nell’alimentare?


Si fa presto a passare da prodotto borderline a bene di prima necessità. Uno studio più approfondito, un’interpretazione più funzionale o semplicemente la comprensione dei bisogni dei cittadini. Che piaccia o no, la cannabis rimane argomento di discussione e per lo più di apprezzamento per italiani e non; a maggior ragione nel momento storico attuale, dove la reperibilità è difficoltosa e il pericolo di criminalità concreto. Ci pensano imprenditori e giovani smart: cannabis light legale, e il problema è risolto.

Non è una novità di certo: la cannabis light, che contiene meno dello 0.5% di THC (la componente psicotropa del prodotto) è venduta da svariati anni, da quando nel 2013 un regolamento europeo ha permesso la coltivazione a uso industriale, per ovvi motivi bombardata di necessità burocratiche e certificazioni legali e sanitarie. Ma se fino alla fine dello scorso anno poteva annoverarsi trai prodotti di un mercato di nicchia, adesso sta vivendo un vero e proprio tsunami di richieste: la marijuana vera e propria, illegale, è difficilissima da recuperare a causa dell’assenza dei pusher, che con le strade piantonate dalle pattuglie non possono muoversi. Ecco allora il ricorso a quella legale, che manca dell’elemento trip, ma conserva quello relax. E in tempi come questi non è esattamente un dettaglio da poco.

Easyjoint, JustMary e brand simili stanno vivendo un momento d’oro, grazie a un sistema di delivery capillare, condizioni igienico sanitarie e normative perfette, e una richiesta che è ormai decollata. Gli ordini sono aumentati del 300%, specialmente in città ben collegate come Milano, Roma, Firenze e Torino; e la lavorazione va gonfiandosi di conseguenza, con il 50% in più di piantumazioni previste per il 2020/21. I rider sono tutti muniti di dispositivi di protezione individuale e Pur ottenibile tranquillamente in negozi specifici e addirittura tabaccherie, la cannabis light non aveva mai ottenuto il riscontro di queste settimane, evidentemente sempre battuta dal confronto con la sorellastra da sballo e illegale. Almeno in Italia.

Negli Stati Uniti, infatti, il consumo di cannabis è perfettamente legale in undici stati, che hanno di conseguenza visto esplodere le richieste negli ultimi due mesi: la marijuana è addirittura stata classificata come bene di prima necessità in Alaska, Illinois, California, Nevada e Washington, con annessa apertura dei punti vendita al pari di supermercati e farmacie. In Olanda, culla della cultura del consumo di ganja, il governo si è visto costretto a far rialzare le saracinesche dei coffe shop, presi d’assalto per le necessarie e importanti scorte da quarantena. E in Italia? Uno spiraglio c’è: con una sentenza depositata il 16 Aprile 2020, le Sezioni Unite Penali della Cassazione hanno affermato che coltivare in casa piantine di cannabis non è reato. Queste devono essere però destinate esclusivamente all’uso personale.

Torna quindi prepotente il discorso CBD, i cannabinoidi, che nel 2017 sono stati etichettati come beni vegetali edibili, e quindi legali nel momento in cui rispettano il limite di THC, che come per la cannabis light è di 0,5%. Il mercato del food and beverage, soprattutto estero, pare aver intuito il trend di consumo, che punta sulla sensazione di benessere e rilassatezza e sui principi benefici del CBD assunto in dosi corrette, discostandosi dalle conseguenze psicoattive della marijuana tradizionale. Bevande funzionali, tè e infusi, birra: all’ultimo Beer and Food Attraction anche uno spumante. Il mondo del bere è già pronto e incline all’utilizzo della cannabis. Chissà che tra le mille conseguenze di questi giorni assurdi, non potrà esserci una riconsiderazione della cannabis in ambito alimentare: il gettito derivato potrebbe essere importante, considerando l’enorme filiera che si collega al prodotto, dai coltivatori ai distributori, ai punti vendita. Per non parlare della lotta indiretta, e neanche tanto, allo spaccio. Quello, sì, sarebbe uno sballo.

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