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Il mercato del CBD è oggi una delle categorie in maggior espansione nel settore del benessere, soprattutto nei paesi anglosassoni. Nel Regno Unito, le operazioni relative al CBD valgono più di quelle relative alle vitamine C e D messe insieme, e le previsioni parlano di un valore di 1.2 miliardi di dollari nel 2025.

I Cannabinoidi (CBD) sono balzati in cima alle liste dei preferiti dei consumatori in seguito agli importanti risultati di ricerche scientifiche, che ne hanno certificato gli effetti benefici nella cura di determinate patologie, tanto da arrivare alla prescrizione di medicinali a base di CBD. Prodotti a base di canapa o cannabidiolo sono andati moltiplicandosi nel Regno Unito,  invadendo praticamente qualsiasi settore, dal caffè ai croissant aromatizzati.

La rapida crescita del settore è ovviamente anche da imputarsi al nuovo status del CBD, che nel 2017 è stato definitivamente definito come elemento vegetale commestibile, aprendo le porte per un suo utilizzo come ingrediente. Numerose realtà hanno iniziato a nascere, start-up che presentano il CBD come elemento portante dell’offerta, solida, liquida o come integratore. La domanda della nicchia, dunque: che futuro nel settore del beverage?

Gli Stati Uniti, come spesso accade, sono la terra promessa, con investimenti multimiliardari già sul piatto, al fine di realizzare bevande alcoliche e analcoliche infuse al CBD. A differenza di altri settori, nel beverage canadese e USA i grandi nomi non hanno esitato a farsi avanti: AbInBev, Coca-Cola, sono già al lavoro per accaparrarsi questo nuovo spazio di mercato. Nel Regno Unito il trend sembra essere agli albori: fioccano le piccole imprese che si dedicano al CBD, con i grandi produttori a seguire e osservare.

Nel gennaio 2019, la European Food Safety Authority (EFSA) ha riclassificato il CBD come novel food, ovvero un prodotto che necessita di specifiche prove di sicurezza, sanità e buon utilizzo per poter essere annoverato tra gli ingredienti di un determinato bene. Nel Regno Unito è la Food Standards Agency (FSA) a sobbarcarsi le richieste di certificazione: le imprese dovranno inviare le proprie richieste entro aprile 2021; oltre questa data, solo i prodotti certificati potranno rimanere sul mercato. Questo al fine di scoraggiare ingressi inadeguati: la richiesta deve far seguito a importanti ricerche dimostrative che possono durare fino a nove mesi, quindi piuttosto gravose per un’azienda non pronta.

Fino a quel momento, è ancora possibile vendere prodotti CBD non autorizzati, a patto che siano sterilizzati, etichettati e privi di THC, principio attivo che renderebbe il prodotto automaticamente una droga. Ma pare che la maggior parte delle proposte sul mercato non aderisca nemmeno a queste poche ma stringenti regole: nel 2019 il Centre of Medicinal Cannabis, punto di riferimento britannico nelle indagini di settore, ha condotto dei test sull’olio al CBD, riscontrando dati allarmanti. Alcuni prodotti testati contenevano meno del 50% di CBD dichiarato, altri non presentavano tracce di cannabidiolo in assoluto. In altri ancora sono state rilevate tracce inaccettabili di THC, in altri prodotti addirittura la versione sintetica, pericolosa e foriera di enorme dipendenza, della cannabis, conosciuta come “spice”.

La FSA irlandese ha da poco pubblicato i risultati di ricerche che hanno chiarito come nel 37% dei casi analizzati (su campione vicino al migliaio), il contenuto di THC fosse ben superiore a quello indicato per legge come terapeutico; e nel 41%, il contenuto di CBD era diverso da quello dichiarato. La fiducia dei consumatori verso il settore potrebbe quindi sensibilmente calare, stante l’assenza di regolamentazione e interventi governativi o comunque di sicurezza.

Il futuro, per quel che riguarda la legislazione, è dunque poco chiaro. Le richieste di certificazione inviate finora alla EFSA riguardano soltanto il settore alimentare solido, e se approvate non sarebbero applicabili alla fascia del beverage. Per non parlare dello scenario fumoso che viene a crearsi a causa della Brexit, per la quale un regolamento europeo potrebbe non applicarsi al Regno Unito, e viceversa. L’invito ai produttori britannici è quindi quello di richiedere certificazione sia alla FSA che alla EFSA, andando a sobbarcarsi un periodo di ricerche, sviluppo e analisi non certo banale, oltre che costoso.

Resta fermo un dato evidente: il settore del beverage è in fermento, e da molti viene definito come il prossimo grosso bersaglio dell’ondata CBD, dopo il cibo e gli olii, e gli investimenti dei colossi statunitensi lo lasciano intendere. Certo va considerato che il panorama regolatorio statunitense è ben diverso da quello europeo e britannico, e a prescindere dalle norme, il binomio CBD-alcolici non è naturalmente ben visto. Va aggiunta anche la dimensione del mercato del bere, ancora piuttosto contenuta rispetto a quella del food, che permette quindi ai produttori di rimanere in attesa di eventuali misure adottate per i prodotti edibili a base CBD.

Importante per adesso l’alternativa dell’hemp, la frazione della canapa non psicoattiva, e quindi già segnalata dalla EFSA come vero e proprio cibo: il mercato si è già attivato per bevande con base hemp, e in generale la risposta è sembrata essere positiva. In definitiva però, il futuro del CBD in Europa, e nello specifico in UK, non sembra essere troppo roseo: la presenza sul mercato di prodotti non regolamentati, e l’assenza di un vero e proprio piano di intervento generano una instabilità deleteria per la categoria, e i consumatori potrebbero non rimanere in attesa troppo a lungo.

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