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L’intento di questo scritto non è tanto quello di recensire ma di raccontare il dietro le quinte del primo degli “incontri monografici” della Collana battezzata come QUADERNI da Camillo Favaro, il produttore di Erbaluce a Piverone con l’ardente passione per i vini di Borgogna.
Un amore così viscerale che in Borgogna si è pure sposato.
L’appuntamento è fissato per il 25 novembre 2021, ore 10.00, a Vosne-Romanée. Dove, come dice Camillo, “non c’è niente”, nessun ristorante di grido, negozi o caffè. “È uno dei comuni al mondo con il valore fondiario più alto in assoluto se rapportato alla sua superficie totale. Eppure non si intravede nulla di questa straordinaria ricchezza”.
Ma c’è una via, Rue du Temps Perdu, che ti porta alla croce eretta nel Grand Cru Romanée-Conti. Fotografata quanto la Tour Eiffel con il solo vezzo di mostrare agli altri prima che a se stessi di esserci stati. In testa di Camillo c’era il desiderio di scrivere un libro sul Domaine de la Romanée – Conti. Nientedimeno. Di fare un’intervista a Aubert de Villaine e suggellare il tutto con una verticale. Una cosa da niente, insomma. Semplice da fare e organizzare. Se la prendiamo con ironia.
“Se accettassimo tutte le richieste di visita per far assaggiare i vini non ne avremmo più da vendere” – ha dichiarato Aubert qualche anno fa. Già prima dello scoppio della pandemia, infatti, DRC aveva iniziato a limitare il più possibile le visite alle cantine fino a bloccarle del tutto. Almeno per l’Italia e dunque per chi intercede: Sagna S.p.A., importatore dei vini del Domaine dal 1990.
Quella di Camillo non era una richiesta semplice da soddisfare. C’era poi il nome a non convincere del tutto. QUADERNI è una nomenclatura già piuttosto in uso nel mondo del vino. Ma ArtevinoStudio, l’agenzia creativa specializzata in progetti grafici nel settore, ci ha abituato a prodotti originali e con una cura ai dettagli rara. Allora ci proviamo. Bisogna provarci, sempre. Scriviamo spiegando il fine dell’intervista e della degustazione. L’obiettivo è mettere in risalto la personalità e la visione del produttore, i punti cardinali di ogni vino, tradotti dall’esperienza, dall’interpretazione stilistica e dal lavoro di ricerca per ottenerlo, dalle scelte produttive in funzione dell’annata, dalla capacità di adattamento ai cambiamenti climatici.
Una verticale, invece, oltre a farci viaggiare nel tempo, determina il livello di conoscenza dei propri gusti, dei concetti di “buono” e di “unico”. L’evoluzione del vino da intendere come sintesi, capace di restituire trasparenza e verità. Inviamo la richiesta, e lo facciamo con bassissime aspettative. La risposta non tarda ad arrivare. Qualche settimana dopo abbiamo la conferma e la data nonché la selezione dei vini. La degustazione sarà dedicata al Romanée- Saint-Vivant. Inutile dire che si era chiesto per La Tâche, Richebourg o Romanée-Conti. Ma la scelta di proporre il S.V si chiarirà durante l’intervista e sarà più “eloquente” dopo l’assaggio. Descritto nel libro.
L’APPUNTAMENTO. L’INTERVISTA.
LA DEGUSTAZIONE
Ore 9.45. Parcheggiamo nelle vie adiacenti a Place de l’Église. Camillo Favaro, Alessandro Vaudagna (il farmacista di Torino), Maurizio Gjivovich (fotografo) e la scrivente. Un freddo che taglia le mani. Suona la campana della chiesa Saint-Martin. Aubert de Villaine esce dalla cantina, attraversa il cortile. Noi, si fa finta di non vederlo. È lui. Giacca verde, un grande cappello nero, sciarpa rossa. Pantaloni in velluto. Non è mai stato visto, sempre dalla scrivente, vestito in altra maniera. «Buongiorno. Entrate pure. Fa freddo. Io vado alla posta e vi raggiungo». La posta dista qualcosa, forse, come dieci passi da dove ci troviamo. Ci guardiamo e non diciamo niente. Restiamo a congelarci per quindici minuti. Poi ricompare. Scende le scale.
«Non siete entrati». Con l’aria un po’ stupita Aubert ci fa strada e apre la porta. La segreteria, Mireille Bossu, ferma le sue preziose dita impegnate a scrivere e ci accoglie. Aubert si reca in un altro ufficio, noi saliamo al piano superiore, nella sala riunioni. Molto minimal negli arredi, in legno, pochi i quadri appesi. Di piccola-media grandezza. Niente arte, solo foto di vigneti o dettagli. C’è anche una macchina del caffè. Una comunissima macchina a cialde del caffè. Restiamo nel brodo per qualche minuto. Parliamo sottovoce. Ognuno aveva già scelto il suo posto. Aubert arriva e si toglie il cappello. Si soffia il naso. Anticipa di non essere in formissima e che avrà un impegno nel primo pomeriggio. Senza alcun giro di parola si inizia l’intervista con una domanda che fa sospirare il protagonista della storia. Perché DRC non è una leggenda. «Ci sono molte cose da dire ma la conclusione è che non è una leggenda». Nel susseguirsi dell’intervista de Villaine spiegherà chiaramente la differenza tra un grande vino e un buon vino. E di come siano le condizioni naturali, grazie al supporto dell’uomo, a renderli tali. La Borgogna è legittimata ad essere considerata come terra di grandi vini per l’idea che si è sviluppata nel corso della storia: approccio parcellare e una sola uva, il Pinot noir. Non mancano i momenti di leggero imbarazzo e di assoluto silenzio accompagnati da qualche rintocco di campana o rumori di oggetti che si spostano sul tavolo. «Scusate, non riesco a trovare le parole».
“La modestia, non di facciata, sbarazza il campo da interpretazioni su atteggiamenti da prima donna che la guida del Domaine non ha mai avuto”. Scriverà Camillo.
Ma c’è anche il tempo dei sorrisi a fronte di qualche battuta, come quelle sulla critica internazionale e la sua influenza in Côte d’Or o quando si tirano in ballo i vini naturali. La risposta è spiazzante. «Non so cosa siano questi vin nature». Infine c’è il momento in cui de Villaine cambia il tono della voce, è più acuta. È l’entusiasmo. Accade quando ci racconta la sua prima esperienza di assemblaggio di 3 diverse parcelle, non per unire, come nel caso del Corton, uve raccolte da piante vecchie e giovani ma uve raccolte in diversi periodi, in altezze diverse e che, post vinificazione separata ha capito che solo unendole si sarebbe trovata l’espressione completa. Qualche foto nei vigneti e andiamo in cantina. Tutto è pronto, bottiglie senza etichetta già aperte, in un lato. Qualcuna ancora impolverata. I commenti ai vini e i volti a tratti increduli altre volte illuminati lo fanno sorridere e abbassare spesso lo sguardo sul tavolo. A guardare il frutto del suo lavoro. Perché de Villaine non nasconde di esser molto legato al vigneto nel quale, anche in queste occasioni, trova la conferma del lavoro di definizione da lui voluto. Si allontana da noi, tira fuori un mazzo di chiavi di ferro. Sembra di essere nel Medioevo. Non trova subito quella giusta, di chiave, che lo conduce alla cantina storica del Domaine. Torna dopo qualche minuto. «Questa è la bottiglia della follia». Romanée-Conti 1979. Torniamo in piazza, Aubert ci accompagnerà fino alla macchina. Col sorriso. Noi, dentro, festanti. Urliamo, consci di aver vissuto qualcosa di irripetibile.
IL PROGETTO
Rappresenta in concreto, già nella sua rappresentazione materiale, quello che di fatto è il suo significato, come descrive la Treccani. Quaderni: “insieme di fogli di carta da scrivere, raccolti e legati in una copertina di cartoncino, destinato a usi scolastici, per conti, appunti e annotazioni.” Il colore della copertina in cartoncino ricorda il blu petrolio, c’è un effetto touch in rilievo e in un lato, in copertina così come nel retro, un motivo che vuole riprende i filari dei vigneti. Stampato da Artigrafiche Meroni – Lissone su carte Fedrigoni: Materica Acqua per la cover e Arena Natural Rough per le pagine interne. Oltre la prefazione Fabio Rizzari e le foto di Maurizio Gjivovich non si può non menzionare il progetto editoriale e la grafica a cura di Antonella Frate.
Affascina per la sua semplicità dell’aspetto, proprio come un quaderno che poi, sfogliandolo, assorbe per la narrazione diretta, sincera, convincente. All’autore deve inoltre essere riconosciuto di essere stato il primo italiano ad aver scritto, in lingua italiana, un’opera interamente dedicata al Domaine de la Romanée-Conti.
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