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A volte succede che la vita ti sorprenda, e sconvolga tutte le tue convinzioni. Ci sono delle classificazioni fatte a freddo, frettolosamente. E superficialmente, diciamolo. Un atteggiamento pregiudizievole smentito dall’assaggio di un vino o dall’incontro di una persona che, senza sapere chi tu sia, ti catapulta con il suono della voce, grintosa, o con l’ascolto di Clouds, The mind on the (Re)Wind di Ezio Bosso, nel suo mondo: la Toscana. E d’incanto c’è una sensazione di vastità, inarrivabile, irraggiungibile. Un qualcosa di più grande di te che inevitabilmente ti chiama, e diventa un obbligo scoprirla. Una regione di vino e di cultura, di artisti. Molto si deve all’aristocrazia, importanti e nobili famiglie, che negli anni ha iniziato a condividere  le terre con numerosi investitori stranieri, imprenditori, che hanno dato vita al “brand Toscana”, fatto di turismo e vino quindi Chianti e Brunello, economicamente parlando, di valore incalcolabile. E quello dei Frescobaldi, per gli addetti al settore, ma anche per gli amanti dell’arte o chiunque conosca un po’ la storia, non è certamente un nome nuovo, ma per chi scrive lo è in un certo senso perché vista, vissuta, all’interno.

 

 

Il gruppo Marchesi Frescobaldi continua a crescere, in termini di fatturato, grazie certamente ai gioielli Masseto, Ornellaia e Luce. Ma sono millecinquecento gli ettari di proprietà, dodici milioni le bottiglie prodotte per sessantacinque referenze esportate in 90 paesi del mondo. Numeri che, se messi in fila, spaventano e creano una sorta di interrogativo, una distanza, rispetto al concetto di qualità. La verità è che c’è un difetto nella percezione, perché se ci si ferma ai numeri e all’immaginazione che essi creano: ampiezza, standardizzazione, appiattimento, si corre il rischio di non vederla  più questa realtà. Ci sono altre sette tenute (Perano, Castello di Nipozzano, Castello di Pomino, CastelGiocondo, Ammiraglia e Remole) dove gli spazi architettonici sono di bellezza unica, tutto è sognante, come le nuvole polverizzate nel cielo.

In direzione Montalcino, per arrivare a CastelGiocondo, ad esempio, la strada tra i boschi è lunga, sterrata, una via consumata, antica, che solo il sole potrebbe narrarne la storia. Un percorso rimasto intatto nel tempo che ti conduce nel mondo nel Brunello. Qui vive il silenzio, il profumo del vento scandisce il ritmo della quotidianità fatto di lenti e costanti lavori in cantina. Nella costruzione del 1300 c’è l’ospitalità, terrazza e parco circondati di toscanità, mentre nella moderna cantina di vinificazione e affinamento c’è l’enologo Ermanno Morlacchetti insieme al suo team giovane, di quelli che vivono per il lavoro, a raccontare delle sabbie e di come in pochi metri più in profondità ci sia il galestro. Le colline vitate si spalmano in 250 ettari, un circuito di vigne sviluppato tutto intorno alla tenuta, monopole di Frescobaldi. I sensi sono sollecitati a ogni passo, tra opere d’arte contemporanea, le camere e il giardino. Ad esprimere questa bellezza ci pensano i vini qui prodotti con la supervisione, poi, di Nicolo D’Afflitto, enologo e responsabile tecnico di tutte le tenute.

 

 

Tra le annate del Brunello di punta, il CastelGiocondo, la 2013 ha un’apertura e un’eleganza mortale, il frutto e il suo calore sono in equilibrio, come sospesi. Lungo, lunghissimo, ti lascia tutto il tempo per capirlo. Un’esperienza polirematica. Il 2010 invece è tutto in potenza, si scorge appena qualche cenno di evoluzione che subito scompare. Riparte, si rinforza, nel palato: fresco, tannico e scuro. Fortunato chi lo assaggerà più avanti.

E questa sensazione di ordine, di qualcosa che cambia, in meglio, per un nuovo racconto, c’è anche a Nipozzano, in un castello del 1000, alto, altissimo, a sovrastare sulla zona del Chianti Rufina. Circondato anche qui dalle vigne di sangiovese per lo più, con merlot, petit verdot, cabernet, malvasia nera, colorino e canaiolo a completare le ricette storiche dei vini Chianti Rufina, Mormoreto e Montesodi. Ad operare c’è una giovane e solare enologa: Lucia Minoggio, originaria di Novara. Ad ascoltarla pare essere un tutt’uno con le vigne e con le sue barriques. Credo che non ci sia angolo di terra o una botte che non sia seguito da lei. Vocalizzazioni complesse per il Mormoreto: carico, intenso, dominante al palato per i suoi tannini; più docile, armonioso e delicato il Montesodi, “un vino dell’amore”  – come dice Lucia-  che spinge coppie d’oltremare a venire sin qui per vedere dove nasce.

 

 

Ma il progetto che più di tutti rompe gli schemi è quello di Pomino. Il percorso per raggiungere la tenuta ricorda qualche passo dell’Alto Adige, con le curve ad essere nascoste dagli alberi. E percorrendo il tragitto, i colori cambiano, sale il battito e l’attesa di vedere cosa ci sarà. Dov’è quel paesaggio dorato interrotto dalle case coloniche? Qui è il verde e una luce particolarissima, priva di foschia, a farti entrare in un nuovo, unico, scenario, a quota 680-700 metri. La tenuta ospita la prima cantina d’Italia progettata per vinificazioni a gravità, con spazi già dedicati per il torchio, le barrique e l’appassimento delle uve. Non è la sola bellezza, delle sale e dei caveau moderni, o il bianco magnolia delle mura che mi porto dietro,  ma quello che è accaduto, prima, tra queste mura. Le scritte incise dell’800 nelle colonne anticipano il mio stupore e mi interrogo. E perché, perché questo stupore? Perché da piemontese ero rimasta al pinot noir di Borgogna piantato anche nelle Langhe. Certezze non più certezze, che spingono a nuove ricerche e a ripartire.

La tenuta, se nel 300 era di proprietà degli Albizi, una famiglia di banchieri e mercanti, con l’ultimo discendente, Alessandro degli Albizi, andato in sposa con Vittoria Le Caruyer, passa ai Frescobaldi dopo il matrimonio tra la figlia Leonia e Angelo. Si produceva vino all’epoca, eccome, e saranno stati probabilmente (tra il 1842 e il 1861) i periodi di vacanza in Francia, nel castello di Labreuille nei pressi di Auxerre in Borgogna, ad aver indotto Leonia a introdurre in queste colline le uve francesi. Anche perché era riconosciuta la qualità dei vini di Pomino già dal poeta Redi, da Cosimo Villafranchi (nel Settecento ) nella sua Aenologia Toscana come quelli “fra i primi posti nella produzione di grande qualità”, “gli unici, insieme a pochi altri, in grado di tenere testa ai vini francesi a detta di Giorgio Gallesio. Tutto confermato nei riconoscimenti ottenuti come la medaglia d’oro all’Expo di Parigi nel 1878.

 

 

Oggi si lavora in un piano qualitativo indiscusso, trattato come una bomboniera, un’unicità dell’Italia tutta prima ancora che della Toscana. E così si è quasi costretti a non limitarsi a produrre i soli vini fermi: il Pomino Pinot Noir 2016 è di fascino e carattere atesino, sul frutto e puntellato dal legno, mentre il secondo è più in stile borgognone, minerale, con il legno a foderare un estratto di frutti gialli. È il Benefizio 2017 (100% chardonnay).

Altimetria, galestro, argilla e le uve arcinote per la produzione del più famoso metodo classico francese…era tutto sotto il naso di Frescobaldi. È del 2011 il primo millesimato, prodotto nei 100 ettari di vigneti di montagna, il Brut Leonia. Affiancato  da un Rosé 2015 la cui densità e struttura agile ne fanno un momento gustativo difficile da replicare: l’acidità alle stelle impone la malolattica e parte della vinificazione in legno a dare complessità. Cemento invece per il riposo dei vini di riserva da usare per completare l’opera. Sorso strutturato, carnoso, come una pesca matura, ma leggera e accelerata dal sale.

E in futuro chissà magari ci sarà una riserva speciale!? Chi può dirlo, certo è la conferma che il gruppo tutto lavora con precisione e identità propria in ogni singola tenuta. Da analizzare e raccontare, in futuro, separatamente, per scoprire il profilo e filosofia, delle persone che dedicano la loro vita a questi progetti.

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